Grande atleta e carissimo amico, Ito Giani ha segnato un’epoca.
Di seguito, l’articolo da me scritto anni orsono ad illustrarne imprese e carattere.
Varese, li 28 settembre 2018 nel giorno dedicato a Sant’Essuperio di Tolosa
MdPR
L’oro ‘strappato’
Giani, Cavallazzi, Raile, Vimercati.
Non ricordo in quale preciso ordine, ma erano questi i componenti della mitica staffetta quattro per cento metri piani che, ben oltre mezzo secolo fa, vinceva per i colori del ‘mio’ liceo scientifico di Varese tutte le gare regionali e nazionali alle quali partecipava.
Tra i quattro (e non me ne voglia ‘Peppo’ Vimercati che, del resto, sarà senza dubbio d’accordo con me), il più dotato – anche un incompetente, vedendolo in pista, se ne rendeva subito conto – era Ito Giani.
Schivo oltre misura, capace di nascondersi e quasi quasi di sminuire le sue grandissime imprese, Ito è una di quelle persone che sei orgoglioso di aver visto in azione o anche solo di aver conosciuto.
So benissimo che in atletica si emerge attraverso un duro e costante lavoro, che occorrono sacrifici ai quali per i più è impensabile sottoporsi, ma – ed è questa, a ben vedere la ragione della mia considerazione per lui – Ito correva con una tale naturalezza da far credere che sprintare e vincere fosse cosa facilissima.
Nazionale (ovviamente), campione italiano, plurimedagliato alle Universiadi laddove ebbe a guadagnarsi anche l’oro, Giani raggiunse il massimo della forma nel 1968 e, per la miseria!, proprio in vista dei Giochi Olimpici di Città del Messico.
Ora, la vicenda che vado a raccontare – devo fare questa premessa, conoscendolo – è vera, ma interrogato al riguardo, cercava di glissare e, al massimo, ne diminuiva grandemente la portata.
Fatto è che nei ‘suoi’ duecento metri (la distanza che gli permetteva di distendersi e di esprimere tutta la potenza che aveva in corpo) al Messico semplicemente volava.
Al punto che, al termine di una gara tra sprinter olimpici di differenti nazionalità messa insieme quasi per passare il tempo ma nella quale tutti i partecipanti, orgogliosamente, avevano dato tutto, primissimo si può dire ‘per distacco’, fermo ad assaporare tra sé e sé il momento oltre il filo di lana, si era visto avvicinare dall’australiano Norman che, largamente battuto, complimentandosi, gli aveva detto “Ci vediamo in finale”.
Immagino che tutti ricordino il celeberrimo podio della premiazione di quei benedetti duecento metri: sul gradino più alto, con un pugno guantato di nero alzato verso il cielo, il vincitore americano Tommy ‘Jet’ Smith.
Su quello riservato al terzo, nel medesimo gesto, John Carlos.
Negri – come allora si diceva senza alcun intento offensivo – quali entrambi erano, protestavano in quel modo contro le discriminazioni che la loro patria ancora riservava ai ‘coloreds’.
Secondo, con la medaglia d’argento al collo, proprio il ‘canguro’ che Ito aveva pochi giorni prima strapazzato.
Uno strappo muscolare rimediato durante un allenamento, un dolore che ti coglie improvvisamente e ti piega ancor più nell’anima che nel fisico e tutte le speranze che ti accompagnano, i sogni che giustamente fai, finiscono al tappeto.
Un colpo da ko e la medaglia che ti spettava, che ‘doveva’ essere tua, è di un altro.
Guardi la corsa dalle tribune e pensi…
Io lo so.
Per certo lo so, Ito.
Uno di quei tre gradini doveva essere tuo e magari il più alto.
Chissà, forse, avessi vinto tu, Smith e Carlos, sconfitti, non avrebbero avuto la forza di mettere in atto la loro protesta e, in qualche sia pur piccolo modo, la Storia (con la esse maiuscola) sarebbe stata diversa.
È per questo che il maledetto inconveniente ti ha messo fuori gioco?
Può darsi.
Sappi, comunque, che, per quanto mi riguarda, al Messico, i duecento, li hai vinti tu!
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