Da una parte il presidenzialismo fortemente voluto da Fratelli d’Italia, dall’altra l’autonomia differenziata delle Regioni reclamata dalla Lega con il progetto del ministro Calderoli.
Molti osservatori dicono che è una sorta di scambio: una cosa a me e un’altra a te come nel primo governo Conte: il diritto di cittadinanza ai grillini e i decreti sicurezza a Salvini ma il paragone non regge per vari motivi.
Intanto non è uno scambio alla pari. Cosa intenda Giorgia Meloni per presidenzialismo nessuno lo sa e poi richiederebbe una difficilissima riforma costituzionale. Un’impresa del genere richiederebbe un lavoro convergente non solo della maggioranza ma dell’intero Parlamento. Sarebbe altrimenti un gravissimo errore, di più, un’avventura istituzionale totalmente perdente.
Più fattibile l’autonomia differenziata delle Regioni perché già presente in Costituzione dal 2001 quando fu proposta dal centrosinistra e approvata da un referendum popolare con il 64% dei voti. Mai attuata, però fattibile, anche perché tutti si sono resi conto che le Regioni necessitano di essere riformate. La controprova si è avuta in occasione della pandemia con il rapporto Stato – Regioni equilibratosi al meglio solo col passare del tempo e dopo un serio e rischioso conflitto.
Per la verità ci vorrebbe una riforma costituzionale anche in questo campo ma sarebbe radicale e francamente non realizzabile. È la riforma che ridurrebbe le Regioni quasi della metà: se ne parlava agli inizi degli Anni Novanta soprattutto in Lombardia anche perché era l’unica Regione che sarebbe rimasta la stessa, senza nessuna modifica territoriale.
Lasciando stare i sogni, ciò che pare invece possibile è un incremento di autonomia regionale nelle materie già fissate in Costituzione per le Regioni che presentino progetti approvati da larghe maggioranze e che abbiano le carte in regola in materia di bilancio.
L’obiezione di chi è contrario a questo processo di attuazione dell’autonomia differenziata è che, in questo modo, le Regioni del Nord avanzerebbero ulteriormente e quasi tutte quelle del Sud resterebbero (al massimo) quello che sono adesso, povere e arretrate.
Nel merito del progetto Calderoli entrerò in un’altra occasione. Mi milito qui a dire che contesto questa tesi. Il Sud resta quale è oggi se continua con la pratica dell’assistenzialismo centralista e se non spezza il cordone ombelicale e clientelare con Roma. Cioè se non sviluppa nessun senso di vera e orgogliosa identità istituzionale e non diventa custode attivo delle proprie risorse.
Quest’ultimo problema del Sud non investe solo la politica ma anche la società civile che dovrebbe migliorare e sentire la spinta a misurare la qualità della propria classe dirigente la quale spesso, nelle presenti condizioni, preferisce nascondersi dietro le vere o presunte magagne dello Stato.
All’obiezione fondamentale che con l‘autonomia differenziata il Sud rischierebbe di uscire con le ossa rotte la risposta esiste. È data dai Livelli Essenziali delle Prestazioni, i famosi LEP, che devono comunque essere garantiti dallo Stato. Ma chi può andare oltre i LEP deve poterlo fare per il nostro progresso complessivo che alla fine si riverbererà sull’intera comunità nazionale e agirà da potente stimolo alle Istituzioni e alle società del Sud.
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