L’anno prossimo a metà ottobre ci sarà un anniversario per me importante: cinquant’anni di presenza professionale a Varese.
A Dio piacendo – gli sono già grato oggi di avermi dato quasi ottant’anni di vita – a marzo o ad aprile mi avranno già dato la medaglia per il mezzo secolo di iscrizione all’Ordine dei giornalisti.
Mi è particolarmente caro aver dedicato l’arco temporale più lungo della mia attività alla città dei miei nonni paterni che mi accolse subito bene e in breve tempo mi fece sentire come uno di famiglia. E io nella famiglia mi ci tuffai.
Sotto il Sacro Monte c’era una comunità serena, impegnata in una rincorsa non scomposta, anche se non facile, a obiettivi che nei vari strati sociali rappresentavano un passo avanti.
Il boom economico dava opportunità, le coglievano anche i forestieri ai quali bastava dimostrare di avere confidenza con la buona volontà per far parte del gruppo bosino. E dagli immigrati sarebbero arrivate autentiche eccellenze, mi piace ricordarne una per tutte: Salvatore Furia, maestro di scienza e di vita per generazioni di giovani varesini.
Mezzo secolo fa collanti sociali, oltre a una religiosità di lunga tradizione, erano un comune senso della solidarietà, il rispetto non formale tra gli schieramenti politici, la presenza di imprenditori illuminati che investivano nella sanità pubblica e infine lo sport locale che stava scalando la ribalta nazionale.
Arrivavo da Como con una buona esperienza come cronista e mi fu facile constatare che a Varese era speciale anche il tasso di criminalità: decisamente modesto. E per di più questa bella gente viveva in una cornice naturale stupenda.
Mi aveva chiamato alla “Prealpina” Mario Lodi, ho quindi avuto la fortuna di vivere un’esperienza umana e professionale di alto profilo anche nell’ambito del giornale: una famiglia nella famiglia più vasta rappresentata dalla comunità cittadina. E in questa famiglia avrei trovato un inestimabile tesoro: gli amici più cari della mia vita.
Sarebbero poi arrivati anni tumultuosi, difficili: portando essi grandi mutamenti sociali e di costume, hanno fatto evolvere verso lo standard nazionale degli ultimi decenni la Varese serena e buona degli Anni 60.
L’evoluzione non mi ha mai fatto sentire prigioniero del passato, anzi, essendo appunto di famiglia, certamente sono stato poco tollerante per il più grave, ripetuto, direi storico peccato della nostra comunità: l’ omissione, praticata in diverse situazioni, soprattutto nelle scelte politiche, conservative, fatte a volte con eccessiva fiducia e senza mai esercitare il successivo doveroso controllo di una delega in bianco, con il risultato di frenare la crescita generale di una città che per la sua propensione al lavoro e la generosità avrebbe meritato ben altro.
Potrebbe sembrare difficile sostenere che Varese sia una grande famiglia, ma nonostante le tempeste, se non l’odio, abbiano ferito la comunità prima ancora della deflagrazione della crisi generale, oggi sono numerosi i segnali di riscossa.
Sono segnali di forma diversa, ma identici nella sostanza: vengono dal mondo del lavoro, dalla scuola, dalle professioni e sono accompagnati e riproposti dai mezzi di comunicazione che danno spazio a stimoli, critiche, esasperazioni legittime della grande legione di cittadini che vogliono ricreare la serenità e le opportunità di un tempo.
Io ho imboccato il grande viale d’autunno, ma alla famiglia varesina cercherò di dare ancora il mio piccolo contributo che è sempre stato lontano dall’omissione, non immune da errori, ma credo nel segno del rispetto. A volte il mio rispetto non è stato totale per chi non ha considerato la politica un nobile volontariato, ma una professione non esemplare.
Non sono stato il solo in famiglia: anche l’omissione da tempo ha cominciato a sentire gli effetti della grande crisi. E Varese può sperare. Deve guardare avanti perché oggi si vive di corsa, ma un’occhiata, ogni tanto, allo specchietto retrovisore non le farà dimenticare i valori, senza tempo, che l’aiutarono a diventare una delle migliori città d’Italia.
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