Sempre al centro del dibattito il reddito di cittadinanza, già fiore all’occhiello dei programmi del M5S e che, proprio per questa sua forte caratterizzazione politica è stato da sempre oggetto di grandi polemiche.
Andrebbe invece valutato con più freddezza ed oggettività, soprattutto alla vigilia di annunciate nuove norme che andranno a cambiarne il senso e che saranno comunque oggetto di altrettanti polemiche.
Cominciamo subito sottolineando che cambiano i nomi, ma spesso non la sostanza. Da diversi anni in Italia funzionavano programmi simili come il REI (Reddito di Inclusione) e soprattutto il SIA (sostegno per l’inclusione attiva) che avevano scopi analoghi, ovvero soprattutto di tamponamento sociale.
Allo stesso modo da decenni è conclamato che nel nostro paese non funzionino adeguatamente i Centri per l’Impiego, sia per un limitato collegamento tra domanda ed offerta di lavoro, sia perché la gran parte degli occupabili spesso non è comunque abbastanza qualificato per accedere alle mansioni che sono eventualmente richieste dal mercato.
Chi ha lavorato come “navigator” sa benissimo che – al di là delle sparate propagandistiche o dei programmi auto-celebrativi di “Abolizione della povertà” – c’è la desolante realtà di uno strato sociale che in parte lavora “in nero” e si adatta al suo ruolo furbescamente o per necessità, oppure che semplicemente non ha voglia o (soprattutto) non può lavorare. La “voglia” è spesso carente per abitudini, ignoranza, provenienza famigliare, mancanza di spirito competitivo ma anche per pessimismo, delusioni passate con più o meno gravi carenze psicologiche. Temi – questi ultimi – che andrebbero risolti ben prima di puntare ad un lavoro e che troppo spesso restano latenti o sconosciuti. Vi sono poi spesso anche problemi fisici perché una persona non ha magari riconosciuta una percentuale di invalidità, ma se ha effettivi limiti fisici non può svolgere concretamente mansioni manuali.
In particolare, però, va sottolineato che la gran parte dei percettori del Reddito di Cittadinanza in questi anni non ha comunque ricevuto i teorici massimali di legge (ovvero oltre i mille euro per reddito famigliare) ma una miriade di piccole somme mensili insufficienti per campare, ma sufficienti per “arrotondare”, senza però risolvere il problema lavorativo.
Entrando nel merito, infatti, si scoprirebbe che le (poche) offerte di lavoro sono comunque di solito per mansioni manuali o specializzate cui non può accedere una manovalanza parzialmente invalida o anziana o che per qualche motivo non è all’altezza di un minimo di autonomia lavorativa.
Certamente c’è una aliquota di persone disabituate al lavoro (o che lavorano in nero in una miriade di mansioni “parallele” spesso anticamera della manovalanza di micro-crimine) moltissime con passati gravi di tossicodipendenza, ex detenuti, alcolisti ecc. tutto un ceto sociale marginalizzato al quale quasi mai è stata offerta una occasione “vera” di inserimento, ma che – se anche l’avesse – non sarebbe in grado di svolgere.
Il “Reddito di cittadinanza” è stato insomma una mancia, non una soluzione. Il fatto è che lavori veri, stabilizzanti e ben pagati, è difficili trovarli perché richiedono qualifiche, specializzazioni, mobilità, volontà di impegno nel tempo, ovvero caratteristiche che mancano alla gran parte dei richiedenti il sussidio, che in molti casi risultano poco al di sopra del livello di alfabetizzazione.
Senza dimenticare la grande platea degli immigrati, le cui “domande” di reddito sono state presentate (ed ottenute) per tramite dei patronati, sovente non dicendo la verità.
Ogni Regione è andata per conto suo, sostanzialmente in un caos generale, mancando direttive unitarie e tempi obbligatori. Il lavoro d’altronde è – come la sanità – materia di competenza prevalentemente regionale e quindi ci si trova di fronte a scenari, meccanismi e organici spesso molto differenti da un territorio all’altro; tutto questo con il paradosso che norme nazionali come il Reddito di Cittadinanza, finiscono con l’essere gestite in modo uniforme dall’INPS a livello di erogazione del sussidio, ma in modo del tutto differente dal lato delle politiche attive del lavoro.
Complessivamente, quindi, una legge fallimentare in termini di recupero di veri nuovi posti di lavoro, ma utile e a volte indispensabile come provvedimento-tampone ai fini sociali.
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