Sarà presentato lunedì 12 dicembre alle 16.30 a Palazzo Estense il libro di Fernando De Maria “Lettera dalla solitudine”, una raccolta di articoli di una delle figure più popolari e benvolute di Varese. De Maria ha lavorato per molti anni alle Poste e praticato attività sportiva ad alto livello: grande maratoneta, ha sfiorato la convocazione nella nazionale azzurra alle Olimpiadi del Messico. Da sempre appassionato della scrittura, ha collaborato a lungo alla “Prealpina”, iniziando dall’epoca di Mario Lodi e Pier Fausto Vedani. Ha vinto un concorso letterario della Radiotelevisione della Svizzera Italiana e pubblicato nel 2004 il libro “L’arlecchino di Velate”.
A Fernando vogliono bene tutti: sensibile e generoso, umile e altruista è un esempio del virtuosismo cristiano: modello di vita per la sua generazione e per quelle successive. Compresa l’attuale. “Lettera dalla solitudine” racconta di luoghi, sentimenti, esperienze della realtà varesina. Ecco il brano intitolato “L’estate di Anton”.
A giugno, quando ad Avigno si aprono i cancelli dell’oratorio feriale, c’è il profumo dei tigli ad accogliere i bambini. Fino a qualche anno fa, come a Induno, erano ospitati anche bambini e adolescenti provenienti da Paesi dell’Est come l’Ucraina e la Bielorussia, località dove, nell’aprile del 1986, si propagò la nube radioattiva di Chernobyl. Giovani che si integravano facilmente nella nostra provincia per il calore con cui venivano ospitati dalle famiglie. Per loro non c’era solo il richiamo della festa; c’era, soprattutto per i più grandicelli, quel sentimento di fratellanza che, senza parole, ti accomuna al destino degli altri.
Per quattro estati, dal 1998 al 2001, venne ad Avigno un ragazzino di nome Anton. Veniva da Kiev; il primo anno era solo, in seguito portò con sé il fratello minore Alioscia.
Nell’estate del 1998 Anton aveva dieci anni.
Biondino, con gli occhi azzurri, Anton portava sul viso l’aria timida di quei ragazzini che hanno già subito gli effetti brutali della vita. Partecipava a tutte le iniziative dell’oratorio feriale (gite, merende, momenti di preghiera, tornei), era felice, ma non lo dava a vedere. Più che parlare gli piaceva ascoltare, soprattutto la sera quando, al tramonto, si sedeva sul muretto del campo di basket con i compagni. Questi si chiamavano Marco, Jacopo, Luca, Tommaso, Mario, Davide, Simone e Francesco. Tutti gli volevano bene, forse per la malinconia che aleggiava nel suo sguardo.
Era bravissimo a giocare a basket; pigro nel calcio a cui non era molto interessato. Se ne stava all’ombra, sulla fascia riparata dei tigli ad aspettare la palla.
Parlando del suo Paese diceva che l’Ucraina è un paese ricco economicamente, soprattutto grazie alle abbondanti risorse minerarie e a un’agricoltura molto produttiva. Diceva che l’analfabetismo è quasi inesistente, ma che le conseguenze di Chernobyl si notavano soprattutto negli aspetti sanitari dove le speranze di vita toccavano una media del 68/69% e la mortalità infantile del 13%. Anton era un adolescente, ma, nell’esporre pregi e difetti della sua terra, sembrava molto più maturo. Per comprendere il senso della sua vacanza ad Avigno bisognava essere testimoni del saluto che rivolgeva ai compagni l’ultima sera. A parlare era il suo cuore, lo specchio erano gli occhi lucidi. Dall’estate 2003, per un po’ di anni, di Anton non si seppe più nulla. Poi, nel giugno del 2007, quando ad Avigno si aprivano i cancelli dell’oratorio feriale, da Kiev giunse alla famiglia Santambrogio una lettera: “Anton è morto in un giorno d’ottobre, per elettricità, nell’Ucraina Armata, pregate per lui: grazie per avergli voluto bene”.
Una mamma aveva impiegato nove mesi per mettere al mondo un figlio ed ora ne impiegava altri nove per comunicare a un’altra madre che quel figlio non c’era più. Chi ad Avigno aveva conosciuto Anton fece fatica ad accettare quella notizia. Anton, nei suoi silenzi, amava la vita, non conosceva il male; non sapeva che cosa fosse la guerra. Ora, nel campetto di calcio dell’oratorio di Avigno, in una pozzanghera rimane un pallone. In quell’immagine desolata rivive come in un sogno l’ultima sera di Anton. C’è don Giuliano, parroco di Avigno per 16 anni, ora ad Induno, che invita i bambini del luogo a creare un girotondo attorno ai ragazzi dell’Ucraina. Essi partiranno l’indomani. C’è nell’aria un clima di festa e commozione insieme. Una preghiera, un canto e poche parole con l’augurio di “ritrovarci ancora”. Ad un tratto, c’è una bimba che entra nel ‘cerchio’ per avvicinarsi ad Anton. Stringe tra le mani un ciuffetto di fili d’erba: “Tieni – le dice – portali al tuo Paese… li ho raccolti dove tu ti fermavi ad aspettare la palla”. Sono trascorsi un po’ di anni, siamo nel giugno 2017. Le scuole sono finite e, a giorni, riapriranno ad Avigno i cancelli dell’oratorio feriale. In un angolo del campo di calcio, all’ombra dei tigli, fra i ciuffetti d’erba nuova, c’è un fiore bianco. Anton non tornerà più ad Avigno; non parlerà, non giocherà, non sorriderà più ai compagni. Non si siederà sul muretto e non rivedrà più i campi di grano. I suoi occhi timidi sono oggi scolpiti nel cielo azzurro. Ecco perché sua madre, proprio dieci anni fa, ha atteso che si aprissero i cancelli dell’oratorio feriale prima di scrivere: “Grazie per avergli voluto bene”.
You must be logged in to post a comment Login