Un bagliore improvviso, rapido, saettante, come quei dischetti che viaggiano sul ghiaccio e che l’occhio non allenato fatica a seguire.
Questo fu l’exploit dell’hockey a Varese, dal 1977 fino a metà anni ’90. Siamo al Nord, ma non in montagna, e siamo in un’Italia nella quale certi sport hanno scritto nel cronografo del destino il veder confinata la propria fama a contenutissime porzioni di territorio: non era quindi previsto che da queste parti nascesse un sodalizio capace di scrivere un pezzo di storia del ghiaccio italiano ed europeo.
Eppure fu così: dieci anni dopo l’avvento ecco il primo scudetto, bissato due stagioni di seguito. E poi il tetto continentale, nel 1995, con la conquista della Federation Cup, l’unico trofeo europeo organizzato dalla federazione internazionale hockey ghiaccio vinto da una formazione italiana.
Dal nulla al tutto, anche nella considerazione della comunità: i ragazzi della “Varese da bere” affollano il palazzetto di via Albani con lo stesso spirito e la stessa passione con cui sciamano al Lino Oldrini e al Franco Ossola, ancora non sapendo – però – di essere destinati a diventare presto dei nostalgici cantori senza più un presente.
Eh sì, perché il bagliore, a un certo punto e a poco a poco, si spegne. Insuccessi e fallimenti economici si susseguono fino a minare le stesse fondamenta che l’hockey aveva gettato in città, in un contesto generale che vede anche una complessiva decrescita dello sport di bastoni, pattini e dischetti, con le squadre italiane più forti che preferiscono andare a giocare insieme alle formazioni austriache e slovene. Per Varese non c’è più posto, da nessuna parte.
Nemmeno in via Albani, se è per quello. Per più di due anni, gli eredi dei campioni di quattro lustri prima, riorganizzatisi nell’ennesimo tentativo di ricostruzione e iscritti al secondo livello di quanto rimasto dell’italico campionato, sono costretti come tutte le altre attività praticate sul ghiaccio a lasciare la propria casa, pericolante, non più idonea e quindi da abbattere.
Anzi, da rifare. È il punto più basso di sempre, ma in fondo al tunnel si rivede quel bagliore…
Lo stesso che illumina la Varese del ghiaccio oggi, protagonista di un rinascimento che sta facendo parlare di sé. I pattinatori erranti hanno prima di tutto ritrovato una casa. E che casa: la Acinque Ice Arena, inaugurata due settimane fa dal presidente della Repubblica, è il primo impianto olimpico edificato in vista di Milano-Cortina 2026 e una delle arene del ghiaccio – a detta degli esperti – più evolute d’Europa.
Un tetto così prestigioso ha rimesso le ali alla passione. La società è stata presa in mano da Carlo Bino, presidente, imprenditore, persona squisita, sognatore, e da Matteo Malfatti, general manager, ex campione, bandiera di quei gialloneri che dominavano in Italia ed Europa, in un connubio sorretto da regole auree e misurate: entusiasmo, cuore e ambizione, ma solo – quest’ultima – se fa rima con gestione (oculata). Una prova? Varese per i prossimi due anni ospiterà le finali di Coppa Italia.
In panchina è stato richiamato il canadese Claude Devéze, un cavallo di ritorno che si è ripresentato così: «Sono qui per chiudere un cerchio, sono tornato per vincere». E sul ghiaccio, diventato allora bollente, pattinano bandiere varesine come Vanetti, Borghi e Mazzacane, insieme a canadesi (Desautels, Drolet) che esportano la grande tradizione del loro Paese, come fece a suo tempo l’indimenticabile portiere Jim Corsi.
Per confezionare il come back perfetto mancavano solo le vittorie, che da metà campionato in poi hanno iniziato ad arrivare. Ora Varese è terza in classifica, a tre punti dalla vetta. Ma non c’è pressione, né assillo, né turbamento davanti alla sconfitta: incontrato da chi scrive al termine di un insuccesso casalingo, il presidente Bino – birra post partita “di rigore” in mano – ha commentato serenamente «vinceremo la prossima».
Totale-generale? Sulle tribune del fu PalAlbani ogni sabato arrivano a sedersi quasi mille spettatori (nessuno ne porta tanti in Italian Hockey League): nei numeri l’hockey è insomma diventato (o tornato a essere?) il secondo sport cittadino. Dietro al basket, protagonista – poco lontano – di un’altra sbocciante primavera, e ben davanti al calcio, attanagliato nel piccolo cabotaggio e nelle rivedibili scelte di capitani di ventura.
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