Provengo da una famiglia patriarcale e, come credo per la maggior parte degli italiani, contadina. Parlo del ramo materno, perché quello paterno non l’ho mai conosciuto: mio padre era figlio unico e rimase orfano un anno prima che io nascessi; tuttavia non ho dubbi nel considerare contadine anche le origini famigliari di mio papà, le cui ascendenze risiedevano in provincia di Parma e che nell’ultimo anno di guerra e in quelli immediatamente successivi non ebbe difficoltà a integrarsi nella famiglia di mio nonno, suo suocero.
Mio nonno Abramo era padre di nove figli, cinque femmine – tra cui mia mamma, la primogenita – e quattro maschi. Sul finire della seconda guerra mondiale conduceva a mezzadria con le suore clarisse di Gualdo Tadino, in Umbria, un podere di una quarantina di ettari, detto di Patrignone, dove sono nato. Presumo, sulla base degli scarni dati che sono riuscito a ricostruire, che il contratto di mezzadria risalisse alla fine del Settecento, inizio dell’Ottocento, affidato a un certo Rinaldo, forse il bisnonno di mio nonno, nome che poi è ricorso tra i famigliari. Il podere si estendeva su entrambi i versanti di una cresta collinare a sudovest di Gualdo: dalle finestre del lato nord del casolare principale, nelle giornate terse, si poteva intravedere il Palazzo dei Consoli di Gubbio; sul lato Est, il monte Subasio di Assisi era nascosto da una quinta di colli. Il podere confinava da una parte con le estese proprietà dei principi romani Torlonia, che negli anni Cinquanta del Novecento, a seguito di un matrimonio, divennero possedimenti dei principi Borghese-Torlonia, e dall’altra con il fiume Chiascio, che confluisce nel Tevere.
Le terre di Patrignone non erano particolarmente fertili. Gran parte erano a macchia, e perciò abbastanza ricche di cacciagione, almeno a quei tempi. Il resto era prativo, poi c’erano alberi da frutto (per lo più meleti), due vigne e campi coltivati a granoturco, frumento e avena. Il podere, tra l’altro, confinava con un paio di campi di diretta proprietà del nonno, si presume, campi ritagliati proprio da Patrignone, in una zona detta di Rancaja.
Anche la famiglia di mio nonno era patriarcale: i suoi genitori, Angela e Vincenzo, avevano dato alla luce otto figli: quattro maschi e quattro femmine. Dei maschi mio nonno era l’unico sopravvissuto alle due guerre mondiali. La mia bisnonna, che aveva dato alla patria ben tre figli maschi, uno caduto nella prima guerra mondiale sugli altipiani di Asiago e due nella seconda, il suo maggiore morto nei Balcani e il minore della nidiata a Cefalonia, era considerata una sorta di “mamma del soldato Ryan” (anche mio nonno Abramo era stato soldato nella prima guerra mondiale e fu insignito con una simbolica pensione del titolo di cavaliere di Vittorio Veneto), tant’è che fino alla metà degli anni Cinquanta la nonna veniva invitata alle cerimonie commemorative nei paesi dell’Umbria e sedeva in prima fila, sempre vestita di nero, il petto decorato con le medaglie dei suoi tre figli caduti.
Ho un ricordo preciso di nonna Angelina, benché fossi allora molto piccolo di età. Era una donna di poche e scarne parole, tuttavia con me – il suo primo pronipote e per lo più con il nome di uno dei suoi figli morti in battaglia – molto, molto affettuosa. Di giorno stava in un angolino, accanto alla finestra, quella che dava sulla pianura eugubina, con la coroncina del Rosario tra le mani. La sera si ritirava molto presto. Era l’unica della casa ad avere una stanza della casa tutta per sé, segno di grande rispetto e di considerazione. Anche di quella camera mantengo un ricordo particolarmente nitido, perché in seguito – dopo la scomparsa della nonna – i miei mi vi fecero sistemare per tante estati –: il letto in ferro addossato a una parete con sopra la testata una riproduzione della Madonna della Seggiola di Raffaello, a sinistra i ritratti di tre giovani in divisa, i figli della bisnonna e miei prozii morti in guerra, davanti un armadio di legno scuro a due ante sopra il quale la nonna metteva le mele a maturare e a destra la finestra con vicino un aggeggio su cui stavano un catino smaltato e, sotto, il pitale, perché il bagno – in quegli anni – in casa non c’era. Ricordo un bauletto verde e marrone, posto accanto alla parete, sotto i ritratti, dal quale la nonna traeva tavolette di cioccolato, caramelle Valda e – ogni tanto – anche una bottiglietta di rosolio.
La disposizione dei locali della casa era semplice. Sotto le stalle. Sopra, dopo avere salito una lunga scala esterna, le camere: un ampio salone fungeva da cucina: un lungo tavolo in mezzo, la madia in cui stavano riposti il pane e i formaggi, un acquaio con le brocche di rame e un paio di catini, il camino sempre acceso, anche durante l’estate, sotto le cui braci, la sera, si cuoceva la “pizza”, una specie di piada romagnola ma più alta, in altre località dell’Umbria o delle Marche chiamata “crescia”.
Nonna Enrica – detta Richetta, la mamma di mia mamma – un paio di volte al giorno andava a prendere l’acqua nel pozzo. La ricordo camminare, piccola e rotondetta con la brocca sul capo, poggiata su un foulard raccolto e arrotolato in cerchio a mo’ di basamento. I filoni di pane – il pane umbro, rigorosamente senza sale – veniva preparato in casa e cotto nel forno di famiglia ogni tre giorni.
Al tavolo della cucina sedevano sempre una quindicina di persone. La bisnonna a capotavola, e accanto il nonno. Poi la nonna Richetta, i suoi figli e miei zii, una cognata del nonno, vedova di un suo fratello, e una sua sorella anch’ella rimasta vedova da giovane. Sotto la tavola scodinzolavano, alla ricerca di qualche pezzo da sgranocchiare, due o tre cani. Gli appuntamenti importanti dell’anno erano un paio: quelli per la mietitura e la trebbiatura, che avvenivano – ricordo – a qualche giorno dalla fine delle scuole, alla fine di giugno o ai primi di luglio, e quelli per la vendemmia ai primi di settembre: il nonno faceva sette, otto quintali di vino, un vinello aspro e leggero, e li teneva per la famiglia. In quei giorni attorno al tavolo si radunavano una ventina di persone; altrettante – tutti parenti e conoscenti e amici – stazionavano e pranzavano nell’aia.
I ricordi – per me che ero un bimbetto e che dunque ero inidoneo a qualsiasi lavoro – si affollano: uno zio vestito da prete che si aggira nella vigna per controllare la condizione dei grappoli (poi, conseguita la maturità, lasciò come altri il seminario…), le corse nell’aia dietro ai cani da caccia, il silenzio delle notti d’estate buie e stellate, gli odori della terra…
Sul finire degli anni Cinquanta il nonno, anche in conseguenza del sopravvento di alcune leggi che modificavano i contratti di mezzadria, lasciò il podere e si ritirò in una casa che aveva acquistato suo padre nel vicino paese di Pieve, dove riprodusse in tutto e per tutto, anche nell’arredamento e nella disposizione dei locali, l’assetto di Patrignone. Le clarisse, dopo qualche tempo, alienarono il podere per cederlo a un nucleo di pastori sardi. Oggi Patrignone è uno dei molti agriturismi situati nella piana tra Gualdo e Gubbio. I miei zii – i fratelli e le sorelle di mia mamma – si sono sparpagliati per il mondo.
Nel piccolo cimitero di Pieve, situato in un declivio a ridosso di una strada bianca e polverosa che conduce proprio all’antico podere, riposano i miei nonni, i bisnonni, un prozio morto in guerra la cui salma fu reintrodotta in patria negli anni Sessanta e che venne riconosciuta al porto di Bari da mio nonno e da mio padre, una figlia del nonno, mia zia, morta sedicenne, mio papà e mia mamma. Come ha scritto Edgar Lee Masters: “…Tutti, tutti dormono, dormono sulla collina”.
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