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Storia

SANDRA E VISONE: ORGOGLIOSI DI VOI

FRANCO GIANNANTONI - 26/05/2012

Onorina Brambilla e Giovanni Pesce si sposarono a Milano davanti al sindaco socialista Antonio Greppi, il sindaco della Liberazione, il 14 luglio 1945, il giorno della presa della Bastiglia. Il pranzo di nozze, messo su alla buona, con la città che recava visibili le mutilazioni della guerra, fu servito alla Casa del Popolo “Sezione Venezia” di via Andrea Del Sarto con tutti i compagni che erano sopravvissuti alla lotta, Pietro Vergani “Fabio” il comandante generale delle Divisioni Garibaldi, Alessio Lamprati “Nino” il responsabile del tessuto clandestino, Francesco Scotti l’Ispettore della Brigata Garibaldi della Guerra di Spagna, Bruno Feletti uno fra i più noti gappisti e tanti, tanti altri. Nozze povere ma segnate da una gioia straripante. C’erano anche i genitori di Onorina, Maria e Romeo, lei casalinga, lui operaio licenziato della “Bianchi” per attività anti-nazionale, la sorella minore Wanda e Serafina Casati, una partigiana della Valtellina.

Onorina e Giovanni erano stati due grandi partigiani. Grandi, grandi, non quelli – una valanga – dell’ultima ora. Si erano conosciuti nel pieno della guerra e si erano innamorati a prima vista anche se il momento non era stato dei più propizi. Qualche bacio rubato fra un’azione l’altra. Ma fu una cosa seria se i due vissero assieme un’intera lunga esistenza. Onorina è morta nel 2011, Giovanni nel 2007. Sessantadue anni di matrimonio e una figlia, Tiziana.

Detta così potrebbe apparire una storia come tante altre ma non è vero, non fu banale né casuale come non fu bizzarria l’aver scelto quella storica data per scambiarsi gli anelli di vile metallo e giurarsi eterno amore davanti a un Greppi che – ricordava Pesce – si era abbandonato in un interminabile discorso elogiativo in quel palazzotto vicino a Palazzo Marino, reso inutilizzabile dai bombardamenti.

Giovanni Pesce era “Visone” (il nome del paese dove era nato ma i fascisti non riuscirono mai a capirlo), il leggendario comandante dei GAP di Torino e dal giugno del ’44 del III° GAP di Milano “Egisto Rubini” il capo che, catturato dalla Brigata Nera, si era impiccato a San Vittore alle grate di una finestra nel timore, sotto la insopportabile tortura, di poter parlare.

Giovanni, emigrato con la famiglia in Francia quando aveva sei anni (era il 1924), non ancora diciottenne andò a combattere in Spagna nella guerra civile contro i golpisti di Franco e i collaborazionisti di Mussolini. Fu un’esperienza straordinaria: il giovanissimo “garibaldino” delle Brigate Internazionali si fece onore con il mitra fra le mani, a fianco a fianco del lavenese Mario De Ambroggi e il friulano Domenico Tomat, sul fronte di Teruel, Arganda, Guadalajara, l’Ebro dove fu ferito tre volte. Tornò in Italia nel ’40 ma fu “pizzicato” subito dalla polizia fascista, processato ad Alessandria, condannato e spedito al confino di Ventotene, quella che definì la “sua” Università, dove imparò l’italiano (prima lo ignorava) avendo come “maestra” Camilla Ravera, l’intellettuale comunista di cui Giovanni Pesce aveva conosciuto il fratello Cesare caduto nella piana di Guadalajara dove fascisti e antifascisti italiani si trovarono a faccia a faccia.

Libero dal 25 luglio del ’43 alla caduta del duce (ma fu tra gli ultimi, a metà agosto, a lasciare il confino per carenza di navi), rientrato a casa, prese subito le armi l’8 settembre. La sua figura si stagliò fra le altre per l’ardimento. Nel libro “Senza tregua. La guerra dei GAP” che Feltrinelli continua ristampare dal 1951, una sorta di breviario rivoluzionario, c’è tutto. Imprese al limite dell’impossibile, compresa (la più famosa cantata da Dario Fo) l’eliminazione di quel Cesarini, capo della “Caproni”, reo agli occhi degli operai della deportazione di decine di loro compagni nei lager del Reich.

In un radioso 25 aprile del 1947, in piazza Duomo, “Visone” ricevette da Umberto Terracini, presidente dell’Assemblea Costituente, con lui a Ventotene, la medaglia d’oro al Valor Militare decretata dal governo De Gasperi e il riconoscimento di “eroe nazionale” pensato dal Luogotenente Umberto di Savoia a Roma liberata.

Onorina Brambilla non fu da meno e questo rende la coppia una famiglia “speciale”, cresciuta fra guerra e fame, rischi e rinunce ma illuminata dalla fermezza del carattere, dalla lealtà, dall’amore per la patria, dalla reciproca fiducia e stima, condizioni queste ultime fondamentali per camminare assieme, senza timori. Le altre sono balle.

Pochi giorni dopo l’armistizio, in sella alla sua Bianchi “celeste” (non azzurra, correggeva) accorse all’appello del comandante “G.L.” Poldo Gasparotto in uno scantinato di via dell’Annunciata in fondo a via Manzoni, per la costituzione della Guardia Nazionale, una sorta d’ esercito popolare che fosse pronto a cacciare i tedeschi. L’impresa andò a monte perché il generale Vittorio Ruggero rompendo i patti consegnò la città al nemico.

Impiegata in un’azienda cittadina, educata politicamente da Pastori, un maturo dirigente comunista reduce dalle patrie galere, nella prima estate del 1944, attraverso “Vera” Ciceri, fondatrice dell’Unione Difesa della Donna (UDI), conobbe Giovanni Pesce impegnato a ricucire le fila della brigata gappista mutilata dalla repressione repubblichina.

Diventò “Sandra”, prima la sua staffetta, poi il suo ufficiale di collegamento (finita la guerra il Ministero della Difesa la equiparò al grado di tenente) protagonista di azioni passate alla storia partigiana: l’esplosivo in uno zaino alla Stazione Centrale per l’attentato al  punto di ritrovo degli ufficiali nazisti; il trasporto di armi da un luogo all’altro della città nel cesto da vimini della bicicletta sfuggita più volte ai controlli polizieschi; la dinamite a Greco-Pirelli per far saltare i treni carichi di prigionieri o impianti industriali rapinati diretti in Germania fino all’arresto per una spiata il 13 settembre 1944 in piazza Argentina, la tortura del feroce SS Wernig alla Casa del Balilla di Monza, la deportazione nel campo di Bolzano-Gries sino alla liberazione.

Onorina quando il  25 aprile si spalancarono le porte del lager non ce la fece ad aspettare i camion degli Alleati che l’avrebbero portata a Milano. Tanto era l’ansia di riabbracciare la famiglia e l’amato “Nino” (così chiamava nella rara corrispondenza “Visone” per sfuggire alla censura) che si mise in marcia con un gruppo di ex prigionieri e superati i valichi della Mendola e del Tonale sotto la neve, toccò prima Edolo e poi, questo tratto in bus, l’agognata Milano. Con il tram “33” arrivò infine a Lambrate nella sua casa di ringhiera. Era il 3 maggio. “Visone” stava impartendo gli ultimi ordini, l’insurrezione si stava esaurendo. Quando finalmente si riabbracciarono, presero la decisione a lungo rincorsa, e, forse in qualche momento, perduta: sposarsi al più presto.

Il 14 luglio non fu scelto a caso ma fu il dono di nozze di “Sandra” a “Visone” in onore della sua “cifra” francese. I due non avevano una lira. Pesce, se non si fosse sposato, avrebbe certamente fatto ritorno alla Grand’Combe nelle Cevennes a fare il minatore, il mestiere che a quattordici anni gli aveva trasmesso il padre Riccardo e che lo aveva stregato “perché – confidava – nelle viscere della terra con tanti compagni lavoratori emigrati per un pezzo di pane, polacchi, tedeschi, spagnoli, avevo imparato in concreto cosa significavano le parole fraternità e solidarietà”.

Una famiglia dalle radici solide, sempre con la schiena diritta.

Lui, Giovanni Pesce, chiamato dopo le battaglie con il mitra in mano, a servire la causa quando, dopo l’attentato a Togliatti nel luglio del 1948, venne convocato a Roma a coordinare quella che fu la prima scorta armata della storia repubblicana a favore del segretario del PCI e degli alti dirigenti da Giancarlo Pajetta a Mauro Scoccimarro, da Emilio Sereni a Celeste Negarville, per poi tornare a Milano, consigliere comunale, consigliere d’amministrazione della “Macedonio Melloni”, presidente dell’ANPI e dell’AICVAS, i reduci di Spagna, generosissimo trascinatore nei “viaggi della memoria” lungo i sentieri della guerra civile fra Madrid e Barcellona di centinaia di giovani al seguito come disciplinati scolaretti.

Onorina fu sindacalista della FIOM-CGIL, delegata dell’UDI, formatrice di giovani coscienze dalla cattedra della libertà. Medaglia d’argento, croce di guerra, ufficiale dell’esercito italiano, Ambrogino d’oro sotto la giunta di Letizia Moratti, figlia di un deportato nei lager di Hitler.

Oggi “Sandra” e “Visone” riposano entrambi al Famedio, il tempio dei cittadini illustri della città di Milano.

nelle foto: Onorina e Giovanni il giorno del loro matrimonio ed in una foto recente

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