Capita di usare parole o frasi inopportune o perché fuori contesto o perché sfuggite in una conversazione in cui ci troviamo a disagio. Qualche volta siamo in grado di riconoscerle e di poterci scusare.
In altri casi no, volevamo dire proprio quello con l’intento di ferire e di svalutare per imporre una nostra visione delle cose. Le parole possono trasformarsi in pietre scagliate contro l’interlocutore o contro un uditorio. Inoltre, quando sono scritte, risuonano con maggior durezza in chi le riceve.
Pensiamo all’uso distorto della lingua in merito all’invasione dell’Ucraina che Putin ha ribattezzato come “operazione militare speciale”: un esempio magistrale di come si possono manipolare le parole e corromperne il significato. Abbiamo recepito l’impatto sull’opinione pubblica del termine “selezione” utilizzato nell’ambito delle politiche sul tema dell’accoglienza dei migranti. Il piano di dividerli stabilendo chi di loro fosse più bisognoso di cure degli altri a dispetto dei legami familiari ha creato sconcerto.
Ogni migrante “selezionato” come “soggetto fragile” sarebbe potuto sbarcare nel porto più sicuro mentre quelli dichiarati in buone condizioni sarebbero stati destinati a restare a bordo per una navigazione con destinazione sconosciuta. Selezione e selezionare sono parole che finora avevo maneggiato con tranquillità.
La prima selezione che ricordo è quella del Reader’s Digest che offriva una scelta di testi, espunti da libri e da articoli, semplificati per facilitarne la lettura.
Poi mi è venuta alla mente sotto forma di flash la selezione di cui ci parlava la senatrice Liliana Segre: settant’anni fa in un lager nazista, lei fu selezionata e mandata di qua, mentre il padre fu selezionato e mandato “di là”. Anch’io ho operato delle selezioni. Però innocue. Selezioni di lavori di studenti bambini e ragazzi nella scuola per individuare da inviare ai concorsi; partecipazione a giurie e a commissioni di concorsi pubblici per scegliere i candidati valutati come più pronti di altri per una determinata attività lavorativa.
Si può selezionare, certo, ma per scopi riconosciuti utili dalla collettività e comunque mai lesivi dei diritti di alcuno. Ma ecco altre parole infelici: l’uso improprio, mi auguro non voluto, dell’aggettivo “bizzarro” che nel mio linguaggio sta per strano, stravagante, curioso, strambo, originale, insolito, eccentrico, balzano ecc.… come ci suggerisce il dizionario dei sinonimi e contrari.
Bizzarro. Così la Premier ha definito il comportamento dei medici incaricati di valutare le condizioni dei singoli migranti che hanno scelto di dichiararli tutti soggetti fragili da lasciar sbarcare. Per fortuna, dico io. Altrimenti avremmo assistito al respingimento dei “sani”, quelli che un Ministro ha chiamato con espressione greve il “carico residuale”, paragonando degli individui a sacchi di merce da scaricare o da scartare.
A sostenere il linguaggio di chi si è lasciato “prendere la mano” nonostante il ruolo istituzionale ricoperto, riporto le parole di alcuni giornalisti della carta stampata.
Uno ha parlato di “circo dei migranti”: un’immagine colorata di giocolieri, trapezisti, clown, domatori di serpenti, ballerine, con musiche e passi di marcia. Un allegro spettacolo allestito su una nave “taxi del mare” con l’aiuto dei volontari delle ONG, i “talebani dell’accoglienza”.
Il linguaggio è con tutta evidenza rivelatore del sottostante pensiero. Non sempre è studiato a tavolino, a volte può essere spontaneo, con parole “dal sen fuggite” che si manifestano quando la comunicazione non è sorvegliata per stanchezza, disattenzione, scarso autocontrollo, o per banale esercizio di supponenza.
In questi casi possiamo riconoscere i veri pensieri di chi parla al di là di ogni apparenza. Sarebbe cosa buona e giusta se chi ci governa e chi ricopre ruoli pubblici ad ogni livello imparasse a controllare il proprio linguaggio e si impegnasse a usare una lingua più “gentile”.
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