Le quinte sono un vicolo mal illuminato del cuore di Genova, uno di quei caruggi di cui il centro del capoluogo ligure si compone. È notte.
La mano che riprende la scena è tremolante e tali quindi risultano anche le immagini, con il focus che passa senza soluzione di continuità tra i due protagonisti di quella che sta assumendo i contorni della tragedia: l’assassino e la sua vittima. Il primo è alla finestra: tiene in mano un arco, resta fermo, guarda la scena delittuosa che ha da poco creato in un inquietante silenzio. Solo a un certo punto chiede beffardo: «Ti fa male?». Lo ripete due volte.
Il secondo, destinatario della domanda, è a pochi metri da quella finestra. Non lo si vede: una mano pietosa ha sgranato i pixel sulla sua agonia. A terra, vicino a lui, è però visibile la grossa macchia rossa del sangue che continua a sgorgare dal suo corpo. Si intuisce sia ancora in piedi, ma sono i suoi ultimi attimi di vita cosciente.
Il terzo personaggio è colui che con il proprio cellulare sta immortalando l’attimo, è la voce della mano tremolante. Parla in spagnolo, parla e piange insieme: si rivolge all’arciere alla finestra e lo insulta, poi chiama trafelato la sua compagna, pregandola di accorrere. Il tutto mentre non smette di girare il “film” della morte del suo amico.
La morte in diretta: oggi è normale. La morte in un video, fruibile ora da milioni di persone: la morte alla portata di tutti.
Leggere il mattinale della cronaca dello scorso 2 novembre, quando il cittigliese Evaristo Scalco ha ucciso con una freccia scagliata da un arco l’operaio peruviano Javier Alfredo Romero Miranda, non è stato piacevole: la rappresentazione plastica del tutto, però, fa letteralmente accapponare la pelle.
E ci costringe, ancora una volta, a confrontarci con l’impeto umano. Con la bestia dentro l’uomo.
“Conosci te stesso”. Queste parole erano incise presso l’ingresso del tempio di Delfi, sede dell’oracolo caro ad Apollo. Parole apparentemente semplici ma profonde, a cui da migliaia di anni tentiamo di dare un significato, forse per trovare una spiegazione a quei moti dell’animo che scaturiscono da una forza interiore e misteriosa che a volte sembra irrefrenabile.
Nell’Odissea Ulisse frenava l’impeto del proprio cuore vedendo con gli occhi la casa saccheggiata dai nemici e la propria sposa costantemente assediata, riuscendo solo mediante la fredda gestione delle proprie emozioni ad ottenere la vittoria finale. Nell’Illiade l’ira funesta che infiniti lutti addusse agli Achei portava invece Achille a essere sopraffatto dal senso di colpa e dal rimpianto, una volta entrato nell’Ade.
L’impeto delle avversità non fiacca l’animo dell’uomo forte: resta sul posto e qualsiasi cosa avvenga la piega a sé; è infatti più potente di tutto ciò che lo circonda, scriveva Seneca, mentre Balzac teorizzava l’impeto superiore a ogni giustizia umana.
Ed è forse il caso di fermarsi proprio a questo. Romero Miranda e l’amico erano usciti a guardare una partita di calcio e a festeggiare la nascita della seconda figlia del primo. Poi si sono fermati a parlare in quel caruggio, hanno fatto baccano, proprio sotto la finestra di Scalco. Il quale si è affacciato, li ha invitati a smettere, ricevendo in tutta risposta insulti e minacce.
A quel punto il cittigliese avrebbe potuto chiamare le forze dell’ordine denunciando l’accaduto. O avrebbe potuto ignorarli: prima o poi, si sarebbero stancati di disturbare.
Avrebbe potuto, insomma, scegliere la giustizia umana. Ha scelto l’impeto, ha scelto la bestia dentro di lui.
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