Il Ministero dell’istruzione cambia denominazione, anzi no, la amplia. Ora è Ministero dell’Istruzione e del Merito.
Non è, a mio parere, una questione solo nominale.
Ma in una discussione tra amici mi trovo in minoranza: «Parliamo di cose più importanti, di problemi veri, non impantaniamoci in definizioni che ci chiudono dibattiti inutili».
Non concordo: cambiare nome comporta il cambiamento della struttura dell’oggetto denominato, se non materialmente almeno nel pensiero di chi lo sostiene. Credo invece, e fortemente, al valore intrinseco di ogni parola: nomina sunt consequentia rerum, è la lezione dei latini. I nomi non sono etichette, sono conseguenza delle cose, perché sono le cose a creare il nome.
Una prima domanda, preliminare, è allora che posto occupa il nuovo sostantivo: merito. Essendo il mondo dell’istruzione vario e composito mi chiedo: merito di chi? Degli insegnanti?
Magari si premiassero coloro che si dedicano con competenza e passione al compito di istruire ed educare, a dispetto dell’inadeguato trattamento economico e delle numerose carenze del sistema. Riconoscere l’eccellenza fungerebbe da incentivo per l’intera classe docente, sarebbe una spinta in direzione del fare meglio, del dare il massimo, del curare la propria formazione e l’aggiornamento.
Pare invece più probabile che il Governo abbia inteso riferirsi al merito degli studenti, a coloro che raggiungono risultati altamente positivi profondendo studio, impegno, attenzione e passione nella preparazione del proprio domani. Niente da contestare.
Se questa fosse l’interpretazione più attendibile del termine merito allora sorgerebbero alcuni quesiti, insieme a qualche legittima perplessità. Chi nutre dubbi sul corretto utilizzo della parola viene tacciato di lassismo e inserito nella categoria, ammesso che esista, di chi si è rassegnato agli studenti “somari”, di chi si accontenta di un comodo sei politico, di chi non fa più caso al peggioramento dei livelli degli studenti in uscita dalla scuola.
Ma chi non vorrebbe una società dove i migliori vengano premiati e inseriti in ruoli di responsabilità, dove chi è capace possa godere delle migliori occasioni per crescere e contribuire con il proprio talento al bene comune? Credo nessuno. Affidandoci all’etimologia della parola “merito”: merito, dal greco meiromai, impariamo che essa significa “ricevere la propria parte”, “ciò che spetta”.
Farebbe piacere se il sostantivo fosse stato scelto in questa accezione, se davvero il “merito” potesse decretare che ogni studente negli anni della scuola, di qualunque ordine e grado, è destinato a ricevere ciò che gli spetta secondo la Costituzione.
Purtroppo la realtà è diversa: lo studente che NON “merita” non sempre ha responsabilità proprie. Spesso non sono sufficienti le doti naturali dato che, è assodato, incidono maggiormente l’ambiente familiare e l’ambiente sociale, le condizioni economiche e, in gran misura, i livelli di partenza.
Ahimè, volontà e impegno da soli non sembrano sufficienti a spingere i giovani verso l’alto. Ed è un dato accertato che le pari opportunità nel settore dell’istruzione sono ben lontane dall’essere raggiunte.
Una scuola che premia il merito di chi è già dotato alla partenza, e isola, di fatto respingendolo, chi non è fortunato per nascita, non adempie al dovere sociale di fornire istruzione a tutti i cittadini. Sarà necessario che il Governo riesca a specificare come opererà perché il merito diventi un’opportunità per tutti.
Mentre mi auguro che il neo Ministro dell’Istruzione e del Merito chiarisca le motivazioni che hanno portato all’attuale denominazione, registro il seguente dato positivo: la discussione che si è sviluppata intorno a questo argomento ha consentito all’opinione pubblica interessata ai temi educativi una proficua rivisitazione di importanti tematiche del sistema scuola.
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