“Mi piacerebbe un giorno poter essere d’ispirazione per qualcuno, come altre persone sono state per me. Insegnando forse, o scrivendo”
“Ho incontrato alcuni professori che sono stati decisivi, che hanno cambiato la mia visione di scuola. Senza il loro incoraggiamento probabilmente non mi sarei iscritta alle Olimpiadi di Italiano per paura di espormi e di fallire”.
Sono le parole pronunciate da Giulia Arnoldi, la studentessa sedicenne dell’Istituto tecnico Einaudi di Dalmine (Bergamo), che quest’anno ha vinto le olimpiadi di italiano. Sono parole che mi consolano.
A 11 anni volevo fare il pilota; a 14 volevo fare l’attrice; a 16, pur continuando ad accarezzare l’idea della recitazione, capii – come Giulia – che volevo fare un lavoro utile per gli altri e mi sembrò che l’insegnamento fosse quello giusto.
Non mi sono mai pentita. Nonostante mi venisse regolarmente rinfacciato il luogo comune secondo cui lavoravo quattro ore al giorno e avevo tre mesi di vacanza all’anno (inutile portare dati che dimostravano il contrario). Nonostante la sempre più invadente burocrazia. Nonostante la bassa considerazione delle persone che mi giudicavano in funzione del basso stipendio. Nonostante i sindacati – almeno i confederali, ad uno dei quali ero iscritta – che riuscivano con eleganza a far finta di tutelarci. Nonostante tutto.
Non mi sono mai pentita perché spero di essere stata di ispirazione a qualcuno come Giulia. Ecco, mi dico, non sono salita su un palcoscenico, non ho acquisito fama e successo, ho svolto un lavoro silenzioso, misconosciuto, psicologicamente logorante, ma se sono riuscita ad essere d’ispirazione anche per uno solo dei miei studenti, allora mi basta.
Credo sia così per tutti gli insegnanti – almeno per quelli che non scelgono l’insegnamento come ripiego – però a tutto c’è un limite. E non si può chiedere loro il martirio. Leggevo l’altro giorno su La tecnica della scuola un articolo a firma Laura Bombaci sull’abitudine dei genitori di accusare e spesso denunciare i docenti per ogni incidente che possa capitare a scuola ai propri figli. Nel dibattito che ne è seguito gli insegnanti hanno chiesto tutti l’installazione di telecamere per avere le prove di ciò che avviene effettivamente in classe.
Tanto per fare un esempio, tempo fa maestra e alunni di un Istituto in provincia di Grosseto erano stati attaccati da uno sciame di vespe nel giardino della scuola. I genitori denunciarono la maestra, che poi fu scagionata e il caso fu archiviato; ma si può lavorare in un ambiente così ostile? E che dire dei genitori che aggrediscono e malmenano insegnanti e presidi se i loro figli ricevono una valutazione negativa o vengono rimproverati?
Un tempo, neanche tanto lontano, “l’ha detto la maestra” era la frase che metteva fine ad ogni discussione familiare e i genitori intuivano che quell’ipse dixit, anche se sanciva verità discutibili, era fondamentale nella formazione dei loro figli: dava loro certezze, un modello da seguire e, in fondo, autostima. L’insegnante meritava rispetto e il fatto che guadagnasse poco e tuttavia si dedicasse con passione al suo lavoro, era motivo di ammirazione. Oggi, invece, le persone vengono molto spesso valutate sulla base del loro successo e della loro ricchezza.
Inoltre, il fatto di avere un figlio che va a scuola autorizza i genitori a credersi pedagogisti, come se l’insegnamento non fosse una professione che richiede conoscenze scientifiche, competenze e studio continuo, oltre ad empatia, rispetto e – lasciatemelo dire, non è retorica – amore e dedizione.
Un’ultima riflessione: avete notato quanti sono stati i partiti che, nella recente campagna elettorale, hanno collocato la scuola tra le loro priorità? Ecco, appunto.
Mi demoralizzo quando penso a quante generazioni ci vorranno prima che la figura dell’insegnante riacquisti la considerazione che merita. Per questo mi consolano le parole di Giulia Arnoldi: mi fanno capire che non tutto è perduto e che si può ripartire da giovani come lei e da insegnanti come i suoi per restituire alla scuola il suo valore. Volendo.
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