L’Unione Europea ha aperto i confini a flussi di profughi ucraini, che, ammontando a parecchi milioni, di fatto sospendono l’applicazione delle convenzioni di Dublino e attivano per la prima volta la direttiva del 20 luglio 2001 sull’afflusso straordinario. Detta procedura concerne tutti gli Stati membri nel caso il Consiglio abbia accertato una situazione di emergenza stretta e stabilito a quali gruppi di persone applicare la tutela. Nel contempo è previsto un equilibrio degli sforzi. Fatto nuovo è che ora l’arrivo degli ucraini alle nostre porte non suscita certe veementi reazioni infastidite, se non addirittura contrarie, come avvenuto in un recente passato.
I motivi: un’immigrazione ucraina femminile già in corso da tempo, destinata al lavoro domestico-assistenziale, con indici di stabile gradimento, l’invasione della Russia micidiale e prevaricatrice in un territorio riguardante da presso i valori della nostra civiltà. In occasioni precedenti l’UE e i governi nazionali ben diversamente si sono atteggiati di fronte a migrazioni risolte mediante esternalizzazione dei confini grazie ad accordi stipulati con Paesi di transito (Turchia, Niger, Libia), eludendo i propri obblighi di assistenza umanitaria. Confessiamolo: prevale ora il criterio d’accogliere profughi bianchi, europei, di tradizione cristiana. Più a nord la Polonia non per nulla respinge l’afflusso di esuli dal Kurdistan iracheni, seguaci di un altro Credo. La UE affida di conseguenza alla scelta discrezionale dei vari governi la sorte dei residenti con cittadinanza di Paesi terzi, con il pericolo di un incubo burocratico-securitario.
Purtroppo c’è da temere che il fattore tempo congiuri contro fattori emotivi di facile impatto. Ci ammonisce in merito l’esperienza tedesca del 2015 nel caso dei profughi siriani, giunti sulla rotta balcanica e accolti con una mobilitazione popolare senza precedenti (fenomeno dissolto in pochi mesi). Parecchi i casi di respingimento di musulmani. Altro caso sconfortante in tutta evidenza quello afghano dopo la conquista talebana di Kabul dell’agosto 2021. Ragioni addotte: le cautele imposte dalla pandemia, la difficoltà dei corridoi umanitari per quanti fossero estranei alle attività di collaborazione con gli insediamenti stranieri.
Come è difficile che la distribuzione dei rifugiati sul territorio risponda a criteri centralistici, così lo spontaneismo dell’attivazione dal basso non sembra soluzione al tutto adeguata, data l’imponenza del fenomeno. Perciò via via si rende opportuna la collaborazione di governo, enti locali, organizzazioni di volontariato, comunità ecclesiali, chiamando in causa anche i singoli. Importante è che la scelta del luogo di reinsediamento risponda al principio della libera scelta.
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