a parrocchia del quartiere dove abito, Valle Aurelia, è stata inglobata negli anni da un centro commerciale: “Il primo dentro il Grande Raccordo Anulare” recita la pubblicità. L’edificio ha via via accerchiato la Chiesa con i suoi negozi, scale mobili, vetrate luminose con il risultato, la domenica, di celebrare contemporaneamente due riti: quello religioso e quello dello shopping. A volte durante la messa i nostri canti si mischiano a jingle in sottofondo.
Stendendo un pietoso velo sui numeri, tutti evidentemente a vantaggio del secondo, la concomitanza dei riti permette ogni volta di osservare quanto in un breve arco di tempo il consumismo si sia strutturato come una religione con proprie regole e comandamenti. Come ha descritto la scrittrice francese Annie Ernaux che ha passato un anno intero all’interno di un ipermercato per poi scriverne un romanzo-saggio “Guarda le luci, amore mio”: “questi luoghi che rappresentano un vero e proprio spazio sociale permettono di raccontare meglio di altri la complessità della vita”.
Innanzitutto un centro commerciale è un luogo a-temporale: non ci sono orologi o calendari. A differenza di una stazione ferroviaria dove ovunque è ricordato l’incedere delle ore, qui il tempo viene cancellato. Si cerca di costruire un “eterno presente” che alimenti il desiderio dell’acquisto: i vestiti, i cibi, le scarpe non sono solo “cose” da comprare ma porte che accedono ad un altro universo, lontani anni luce dalla pesantezza del vivere quotidiano.
In secondo luogo un centro commerciale è grande. Quando ci troviamo in un negozio stretto e affollato siamo assaliti dallo stress, compriamo più velocemente e quindi spendiamo meno. Al contrario all’interno di un mondo fatto di ampi corridoi, lunghe scale mobili, piazze su cui si aprono invitanti negozi, siamo meno condizionati dal numero delle persone: ci tratteniamo a lungo acquistando di più. Chi progetta un centro commerciale vuole farti camminare. Segue esattamente lo stesso meccanismo per cui in un supermercato i prodotti di largo consumo sono spostati o collocati nei punti meno raggiungibili dei corridoi: cercandoli la vista si imbatte su tutta una serie di prodotti che non erano nella lista della spesa.
Infine è un luogo che promette. È evidente che questo concetto è più difficile da descrivere ma resta un fatto che se una volta compravamo perché avevamo bisogno (il necessario per un pranzo, una camicia nuova, un vestito, un paio di scarpe invernali) oggi tendiamo ad acquistare uno stato sociale, una forma fisica idealizzata, una speranza di realtà. Motore di questo meccanismo è la pubblicità televisiva: non solo in un centro commerciale vengono infatti riproposti su grandi schermi gli spot più popolari ma anche le immagini, la musica di sottofondo, le scritte rimandano a campagne pubblicitarie più o meno riuscite. In questo modo, forse senza che gli investitori se ne rendano conto, si sancisce in maniera impietosa anche una differenza sociale: la maggior parte degli extracomunitari, lavoratori saltuari, badanti, che affollano i corridoi, non potrà mai accedere a tutta una serie di prodotti esposti nelle luminose vetrine. In un mondo in cui il valore della persona sembra ancora dipendere da ciò che acquista e consuma, chi non può permetterselo pensa di essere meno cittadino di altri. È quella che l’Ernaux definisce: “l’umiliazione inflitta dalle merci”.
All’uscita delle Messe spesso i due popoli si incontrano e si scrutano incuriositi. Qualche volta, con la bella stagione, il Parroco prova a integrarli, proponendo una celebrazione all’aperto in una delle piazze del centro. Funzionerà? In fondo la grande domanda che accomuna i due mondi è quella che un fortunato film di Aldo Giovanni e Giacomo proponeva a mo’ di sfida: “Chiedimi se sono felice”.
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