Una foto commovente è stata ripubblicata il 12 settembre, in occasione della ripresa delle lezioni: una bambina scende le scale della sua casa per andare a scuola; è il suo primo giorno; indossa probabilmente la divisa prescritta e ne sembra orgogliosa; attorno a lei, tre poliziotti in borghese. Era il 14 novembre 1960. Era New Orleans. I poliziotti erano agenti federali. E la bambina, Ruby Bridges, era nera, la prima scolara nera ad essere ammessa in una scuola di bianchi.
In classe non trovò i compagni: i genitori si erano rifiutati di farli frequentare con lei. Solo un’insegnante era rimasta. Poi alcuni genitori cominciarono a mandare a scuola i figli, ma il papà di Ruby perse il lavoro e il negozio dove i Bridges facevano la spesa si rifiutò di vendere loro i suoi prodotti. Grazie alla sua determinazione, Ruby riuscì a finire gli studi e adesso è presidente della Fondazione che porta il suo nome e che lotta per i diritti umani.
Ma non è tanto sul problema razziale che voglio soffermarmi, quanto sul desiderio di imparare che deve aver animato quella bambina nell’affrontare una situazione così assurda e difficile. Il pensiero è andato subito a tutti quei giovanissimi – soprattutto ragazze – che, ancora oggi, non possono accedere all’istruzione e che la desiderano come la più grande delle fortune. Penso alle adolescenti afghane, a Malala Yousafzai, gravemente ferita dai talebani pakistani perché a 13 anni già lottava per il diritto all’istruzione. Penso alle studentesse di cui Azar Nafisi parla nel suo Leggere Lolita a Teheran: si recavano a casa sua avvolte nel chador e accompagnate da un maschio della famiglia a cui raccontavano di frequentare lezioni di approfondimento, ma intanto leggevano e commentavano libri occidentali proibiti, rischiando, assieme alla loro insegnante, di essere espulse dall’università, o peggio.
E soprattutto penso ai nostri studenti e a quanto siano diversi da loro. Ormai non insegno più da parecchi anni, ma non credo siano cambiati molto. Ogni inizio d’anno era un’impresa riuscire a motivarli nuovamente: durante le vacanze avevano escluso dalla loro mente tutte le nozioni apprese e sembrava dovessero estrarle faticosamente dai recessi della memoria. Non era un privilegio, per loro, imparare, ma un obbligo. Capivano, quando li facevo riflettere, che l’istruzione li avrebbe resi liberi, ma lo capivano con la testa, non col cuore; e per alcuni non giustificava la fatica.
Sarebbero capaci, i nostri giovani, di lottare per avere un’istruzione? Io credo di sì, se la scuola fosse vietata. Il fatto che sia accessibile, e per 16 anni obbligatoria, la priva del suo fascino e la presenta come un dovere e non come un diritto. Non voglio, ovviamente, sostenere che bisognerebbe vietarla, voglio solo riflettere sul fatto che è naturale per l’essere umano apprezzare un bene solo quando lo perde e darlo per scontato finché ne può godere.
Il modo in cui è stata accolta la fine della didattica a distanza è illuminante: tutti, dagli studenti ai media, hanno sottolineato l’aspetto socializzante della presenza a scuola, ma pochi hanno messo in evidenza la migliore qualità dell’istruzione. Questa, in qualche modo, era garantita anche dalla DAD (e dunque non se ne era sentita la mancanza), la socializzazione no.
Quando vedevo i miei allievi particolarmente apatici, mi divertivo a scandalizzarli con un paradosso: poiché mi sembrava venissero a scuola solo per il “pezzo di carta”, sostenevo che il diploma avrebbe dovuto essere assegnato alla nascita, assieme al nome, in modo che coloro che decidevano di studiare lo facessero solo per passione. Purtroppo qualcuno ci pensava seriamente, prima di ridere.
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