Il presente è l’unica dimensione in cui ha senso vivere. Questo è, in estrema sintesi, l’assioma del cosiddetto presentismo, che l’enciclopedia Treccani definisce come «dipendenza eccessiva dal presente, visto come unica dimensione della realtà». Il presente è l’unico momento in cui io esisto, ci sono; il futuro è un presente che deve ancora presentarsi. Qual è il senso di proiettare la nostra esistenza nel futuro, se noi viviamo nel tempo presente?
Il futuro può offrire prospettive rosee, di cambiamento o miglioramento della propria condizione: oggi lavoro e domani godrò del lavoro fatto, come un contadino lavora la terra per mesi perché un giorno possa mietere il grano e sfamarsi. Secondo lo storico Yuval N. Harari, proprio l’agricoltura è strettamente legata al nostro rapporto con il futuro: prima della rivoluzione agricola, che Harari definisce (non senza intento provocatorio) «la più grande impostura della storia», gli uomini vivevano di caccia e raccolta; provvedevano di giorno in giorno al proprio fabbisogno alimentare e vivevano alla giornata. Con l’invenzione dell’agricoltura, gli umani devono proiettarsi nel futuro: oggi lavoro per qualcosa che mangerò fra tre mesi; inoltre, devo prepararmi all’eventualità che una brutta grandinata o la siccità distruggano la mia fonte di cibo. Devo programmare a lungo termine il mio lavoro.
Questioni agricole a parte, è indubbio che il presentismo sia peculiare di questa epoca. Molti hanno trovato una facile connessione tra l’incertezza del futuro e il bisogno di presente. Tra crisi economiche, pandemie globali e la prospettiva di un prossimo collasso ambientale definitivo, non è facile coltivare speranza e ottimismo. Mentre chi è più avanti con gli anni può almeno rifugiarsi nei ricordi di un’età dell’oro passata, per i giovani questa è l’unica realtà che abbiano mai conosciuto e il futuro è tutt’altro che sereno.
Ma c’è dell’altro. Il presentismo non è solo figlio delle cupe prospettive economiche e ambientali. Le ideologie novecentesche, principalmente il cattolicesimo e il socialismo, avevano una visione ottimistica del futuro. Entrambe offrivano qualcosa a cui tendere. Oggi per alcuni non c’è più nessun Sol dell’Avvenire a rischiarare l’orizzonte; per tanti non c’è più Dio, nessuna ricompensa nel Regno dei Cieli. Per questo si parla spesso di età post-ideologica. Ma non è vero che non esistono più ideologie. Il presentismo è un’ideologia. Radicale e sovversiva, perché svuota il futuro di tutto il suo significato.
Questa nuova concezione del futuro e del presente sta già avendo degli effetti, ad esempio nella cultura del lavoro: su TikTok, un trend spopolato nelle ultime settimane riguarda il cosiddetto «quiet quitting» (quiet, tranquillo, silenzioso, e quitting, licenziarsi, mollare). Questa espressione si riferisce a una nuova etica del lavoro secondo la quale il lavoratore deve limitarsi a fare ciò per cui viene pagato, in termini di tempo ed energie psico-fisiche. Nulla di più dello stretto necessario. In Italia tanti ristoratori lamentano la scarsità di forza lavoro. Si sente spesso dire che i giovani non hanno più voglia di sacrificarsi. Gli stipendi esigui hanno sicuramente un peso nella carenza di personale. È però altrettanto vero che i giovani sono meno disposti a rinunciare al proprio tempo per lavorare; soprattutto di sera, d’estate e dopo due anni di limitazioni sociali.
Non è un caso che da qualche anno si senta parlare di settimana lavorativa di quattro giorni, già sperimentata da alcuni Paesi e da alcune aziende. Ma la politica non sempre riesce a intercettare questi sentimenti. Importanti cambiamenti culturali sono in atto. Il sacrificio in funzione del successo non è più un valore assoluto. Il benessere emotivo e la salute mentale, strettamente connessi al lavoro, sono una priorità per molti. Il tempo presente non è più subordinato al futuro.
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