“Stavamo tanto bene con Draghi” diceva qualche sera fa Renato Zero al Circo Massimo, a margine dei festeggiamenti per i suoi settant’anni. Interpretando un sentimento diffuso (ai primi dello scorso settembre il gradimento per il presidente del Consiglio sfiorava il 70%) che però, inspiegabilmente, non ha trovato sbocchi all’interno della contesa elettorale. In qualsiasi altra parte del mondo, avrebbero fatto di tutto per capitalizzare un consenso di quelle proporzioni. Da noi, invece, la politica ha marginalizzato Draghi, lo ha tenuto alla larga, nella speranza, magari, di vederlo sparire dietro un incarico internazionale e toglierselo dai piedi definitivamente; chissà se non sia anche questo il motivo per cui l’astensione ha fatto registrare un altro bel balzo in avanti. Ormai sfiora il 40%. Quasi quattro italiani su dieci hanno scelto di non scegliere, standosene a casa, disinteressandosi della politica e del proprio futuro. E adesso il primo “partito” è proprio questo.
Di certo, gli ultimi quindici mesi di governo (516 giorni, per esattezza) ci avevano abituato bene. C’era serenità, nonostante l’enormità dei problemi da affrontare, perché avevamo la certezza che qualsiasi argomento sarebbe stato trattato come si deve, con competenza e professionalità. Soprattutto, c’era aria di credibilità. Un’aria frizzantina che si respirava a pieni polmoni anche a livello internazionale. Bastava che il presidente del Consiglio parlasse, perché in qualsiasi parte del mondo quella questione venisse trattata con la massima serietà. Una sensazione piacevolissima, che mancava da tempo immemorabile, dopo che, per decenni, siamo stati messi in un angolo, tra lo scherno e la sopportazione. Non per colpa della collettività nazionale che, anzi, è apprezzata per impegno e creatività. Ma perché abbiamo dovuto sopportare governi impresentabili, fatti per lo più di guitti, incapaci di amministrare anche solo il condominio di casa propria.
Mentre con Draghi si vedeva sempre uno spiraglio di luce in fondo al tunnel, qualsiasi fosse il problema. C’era fiducia. Abbiamo assaporato di nuovo, per poco tempo, il sapore di quell’ingrediente impalpabile che è la fiducia, indispensabile per portare avanti qualsiasi iniziativa. Un po’ come il sale nel cibo. Che soprattutto in campo economico è capace di fare la differenza. S’investe perché si ha fiducia. S’intraprende, perché si ha la convinzione di poter poggiare per bene i piedi per terra. Adesso, invece, per riprendere le parole di Renato Zero, siamo andati “a votare come al totocalcio, alla cieca”. Vedremo quel che sarà. Cambierà il governo, ma i problemi che si pongono davanti sono gli stessi: recessione, pandemia, difesa del territorio, indipendenza energetica, evasione fiscale. Solo per dire dei più importanti. Il governo cambia ma i problemi rimangono quelli lì.
Non potremo pretendere da chi arriva la stessa autorevolezza di cui abbiam goduto finora. Non è una merce che si possa trovare sugli scaffali del supermercato. Ma almeno continuità, sì. Soprattutto oggi, sul piano internazionale, ci vuole continuità d’azione, di fronte ad una guerra d’aggressione che merita solo la riprovazione generale e lo sforzo più convinto. Almeno su questo bisogna dimostrare da subito, coi fatti, che si è per dar seguito a ciò che è stato fatto finora. Che c’è in gioco? Ci sono le sorti del Paese e di quella stessa comunità internazionale di cui facciamo parte. I pericoli d’involuzione s’intravedono bene all’orizzonte. Non ci dev’essere spazio né per Orban né per la Le Pen. Solo per il buon governo. Nei giorni prossimi, analizzando i flussi elettorali, capiremo meglio come sono andate le cose. Ma di certo, anche a destra, rimescolando le carte, si è voluto premiare la Meloni e punire soprattutto Salvini. Questo significa che gli elettori hanno scelto nel verso di una maggior concretezza, responsabilità e affidabilità. Speriamo che abbiano avuto le sensazioni giuste.
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