“Mi chiamo Maniglio e ti racconto una storia”. La famiglia, gli amici, la Varese che si è sempre perito di raccontare con uno stile cristallino e inconfondibile, ricordano Maniglio Botti a più di due anni dalla sua scomparsa. Il mezzo è un libro che, su iniziativa di Fiorenzo Croci e Michele Mancino, raccoglie tutti gli interventi con cui il giornalista varesino appassionò il pubblico di Facebook: 500 pagine, con la prefazione degli adorati figli Carlo e Lucia e di chi, tra i più cari, lo ha accompagnato nella sua esistenza. L’appuntamento da segnare sul calendario è per sabato 1 ottobre alle 18: il volume verrà presentato nella sala Varese Corsi di piazza della Motta, in una serata caratterizzata anche dalla musica di Carmen et Les papillons, gruppo di cui Botti era appassionato. Il devoluto della vendita del libro andrà alla Fondazione per la Ricerca sulla Fibrosi Cistica, malattia di cui è affetta Caterina, figlia di Lucia,
Di “Mi chiamo Maniglio e ti racconto una storia” vi proponiamo di seguito un brano, scritto da Botti il 10 ottobre 2017. È l’incontro con un grande amore, durato tutta una vita: il giornalismo.
Non ricordo esattamente quando maturò in me l’idea di fare (o di cercare di fare) il giornalista. Certo ero un ragazzino, e non sbaglio se indico alcuni film su storie di giornali e di giornalisti che mi avevano molto impressionato e coinvolto: l’Ultima minaccia con Humphrey Bogart – e quella battuta finale famosissima: È la stampa bellezza – o quell’altro film altrettanto famoso di Billy Wilder: l’Asso nella manica con Kirk Douglas. Più il primo del secondo, credo, perché́ Douglas fu il prototipo di certi giornalisti di Studio aperto, abbastanza lontani dal mio carattere.
Dopo il liceo la decisione si concretò nel momento in cui, settembre/ottobre ’69, in coda alla segreteria della Statale di Milano per iscrivermi a lettere moderne feci la conoscenza di un giovanotto della mia età, che ricordo bene nell’aspetto – aveva barba e capelli da Gesù di Nazareth – meno nel nome, forse Carlo. Era un brianzolo, simpatico. Anche lui veniva dal classico. Muniti di moduli e vaglia ci ritirammo poi in via Larga a chiacchierare. Quando gli chiesi che cosa avrebbe voluto fare da grande, mi rispose: il regista cinematografico. Mai hai già̀ fatto qualcosa? gli chiesi. Per adesso no, vedremo.
Mi si drizzarono i capelli in testa e capii subito che se avessi voluto per davvero fare il giornalista mi sarei dovuto dare da fare in fretta. A Varese c’erano due sedi di giornali quotidiani: la Notte, che stava in una corte di piazza della Motta, a sinistra guardando la chiesa di Sant’Antonio; e la Prealpina, che s’era da poco trasferita da via Ghiringhelli, dall’ex Palazzo Littorio oggi (e anche allora) palazzo della Questura, nella sede di proprietà̀ di viale Tamagno.
Mi presentai col cappello in mano in entrambi i giornali. I giornalisti “effettivi” della Notte erano due: Guido Zanini e Giampiero Perrucchetti. Un po’ chiuso il primo, simpaticissimo e solare il secondo, che per altro già conoscevo di vista, avendolo inquadrato spesso sotto i portici. Assomigliava a Giovannino Guareschi: nasone e folti baffi neri.
Con Zanini, nonostante il suo carattere riservato, diventai anche amico. Era un uomo molto interessante, di una ventina d’anni più̀ grande di me: triestino, colto, laurea in legge, proveniva dal Corriere Lombardo e aveva anche lavorato nel cinema a Roma, come aiuto-sceneggiatore, nel film di Bolognini Senilità, tratto dal romanzo di Italo Svevo. Ogni tanto mi capita ancora di vederlo, Zanini, alto, allampanato, poco sorridente, in verità. Ha superato abbondantemente gli ottanta ma come si diceva a militare è ancora “ginnico”. Giampiero Perrucchetti non c’è più da tanto tempo. Ne scrissi il necrologio per la Prealpina.
Non c’era molto da fare alla Notte, che dedicava a Varese tre quarti di pagina, l’ultima. Con i titoloni e il “tamburo” dei cinema diventava poco più di mezza pagina. Venni arruolato, tuttavia, per scrivere su un giornaletto, uno dei tanti che in quegli anni pullulavano a Varese e si mantenevano con la raccolta della pubblicità: Splash! L’aveva fondato Perrucchetti, mi pare. Il mio primo pezzo su Splash! fu dedicato a Arcumeggia, il “paese dipinto”. Guadagno vicino allo zero.
In Prealpina, invece, mi presentai al caposervizio delle Cronache Varesine Giuseppe Meazza. Ma la sorpresa fu che vi trovai Max Lodi, figlio del direttore, Mario, mio compagno di liceo. Insieme, oltretutto, qualche anno prima al Cairoli avevamo fatto un giornalino: Mondo d’Oggi. Fui felicissimo di vedere un volto amico. Max si occupava di sport (calcio, ciclismo – talvolta, perché questa disciplina era appannaggio totale di Natale Cogliati – e soprattutto basket). Devo dire che Max era un giornalista sportivo nato. Me ne occupai anch’io, forzosamente, qualche anno dopo. Ma la prima cosa che chiesi al momento dell’assunzione, che avvenne due anni e mezzo più tardi, fu proprio quella di non farmi fare lo sport. Per farlo bene occorre essere specialisti. E io, benché tifosissimo, e forse proprio per questo, non lo sono mai stato. Quando mi capitò poi, facendo le sostituzioni per ferie, di stare allo sport, soffrivo come una bestia: gli articoli erano sempre l’uno la copia dell’altro. Cambiava solo il nome della persona chiamata in causa.
Fu Max Lodi a introdurmi in Prealpina. Per primo mi presentò il “migliore”, Gaspare Morgione. Un grande giornalista davvero. E solo chi l’ha conosciuto può capire. Poi, ricordo, Pier Fausto Vedani, che gironzolava per tutto il giorno nei corridoi. La sera, dopo cena, creava la sua pagina di sport. Velocissimo. Scrittura eccellente.
Fu con Vedani – il quale un giorno mi disse di avere ritrovato in me qualcosa di suo fratello minore – che scattò la scintilla. E fu lui il mio maestro. Gli devo tutto. Solidissima la sua preparazione culturale, grande lettore, studioso e appassionato della seconda guerra mondiale: liceo classico a Como, s’era fermato a un paio d’esami dalla laurea in legge a Ferrara.
Tra la Notte e la Prealpina scelsi infine la seconda perché è lì che si vedeva nascere il giornale. In quell’epoca si stampava ancora col piombo. A pensarci adesso sembra un’epoca di uomini primitivi. Il sistema “a freddo” cominciò a essere introdotto, in parte (una sorta di ibrido), nel settembre del ’72. Dalle macchine uscivano delle striscioline di carta – come grosse tagliatelle, i paccheri – poi incollate su un foglio che veniva fotografato e trasformato in lastra per l’offset. I titoli ancora per qualche tempo continuarono a essere confezionati con i caratteri della macchina Ludlow.
A Vedani consegnai i miei primi articoli, quelli cui tenevo maggiormente e che credevo necessari al mio curriculum: uno su Canzonissima, un altro sul Festival di Sanremo del ’70. Ma la pagina degli spettacoli in Prealpina non esisteva. C’era una pagina detta genericamente della cultura, che usciva il sabato (il sabato trippa…); e una dell’arte che usciva il giovedì (il giovedì gnocchi…). Le battute sono di Gaspare Morgione. Entrambe le pagine erano curate dal professor Nino Miglierina, bustocco, cognato del presidente Ferrario e condirettore del giornale. Un uomo di una gentilezza e di una bontà infinite. Alla fine gli articoli me li pubblicarono, nonostante Vedani cercasse di strapparmeli dalle mani per buttarli nel cestino. Se vuoi fare il giornalista – diceva – occupati d’altro. Conosci la gente. Conosci la tua città. Perché il giornalista, sosteneva, non è colui che sa scrivere bene (anche quello), ma colui che sa rapportarsi con gli altri, che gli altri – lettori o non lettori – li rispetta come se fossero amici o famigliari.
Mi rendo conto che rischierei di scrivere per l’intera notte. Pubblico a chiusura la canzone. È una cover. Eleonore, dei Turtles. Cantata da Gianni Morandi che aveva vinto Canzonissima del ‘68/69.
Gianni Morandi – Scende la pioggia.
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