Che ne sarà della Lega? Va male ovunque, perfino nella sua culla: crollo di consensi. Rimane a galla, a esito d’un clamoroso riconteggio, il fondatore. Bossi resiste in Parlamento dopo 35 anni di presenza ininterrotta mentre su gran parte dei suoi cala il mesto sipario. Salvini ha voluto trasformare il movimento delle origini in partito nazionale. Un fallimento di cui dovrebbe, dovrà, trarre le conseguenze: go home, va’ a cà tua. Gliel’ha detto chiaro Maroni. Era giusta l’idea del cofondatore (e totem del federalismo) Giuseppe Leoni, espressa tre mesi fa: un triumvirato al comando. Quelli delle origini, quelli del Capitano, quelli governisti. Pesi e contrappesi, ad arginare lo squilibrio che pareva evidente e le urne han confermato.
Non gli si è dato retta. Peccato. Molti consensi regalati alla Meloni, alcuni a Berlusconi. Inconsistenza conseguente. Nell’esecutivo di Giorgia la Lega conterà poco. Altro che ministero dell’Interno e roba strong. Dovrà contentarsi. L’unico titolato ad avere un dicastero di pregio sembra il draghiano Giorgetti, ma chissà se disponibile ad accettare il sacrificio. Perché tale sarebbe. Giorgetti tace e tuttavia lo si direbbe il primo dei delusi di Salvini. Se il citato Leoni confessa d’avere il magone, che cosa non potrebbe confessare Giorgetti?
La Lega s’è disconnessa dai suoi territori, ecco il punto. Divario da brividi con Fratelli d’Italia nel Nord un tempo egemonizzato e ora negletto. I governatori dell’Est sono sul piede di guerra: il capo gli ha imposto i candidati senza neppure un consulto. Ne riceverà il conto, come dichiarazioni felpate (ahi) di Zaia lasciano trasparire. Silente Fontana, ma se ne comprende il motivo: annunziata la corsa bis allo scranno più alto della Lombardia, ne intravede lo stop prima della partenza. Il successone meloniano autorizza nomi alternativi di centrodestrea al presidente in uscita. Potrebbe essere la Moratti, o qualcun altro se la zarina milanese si smarcasse da Lega-FdI-FI decidendo d’accedere alla corte di Calenda-Renzi, che nel capoluogo han spopolato.
I leghisti attendono/esigono una rifondazione. Erano il sindacato locale di piccoli imprenditori, artigiani, commercianti, partite Iva eccetera: non sanno più cosa sono. Urge vocazione nuova, pragmatica, rispondente alle emergenze, alla modernità. Se no, a rovescio s’aggiungerà rovescio. In ballo c’è anche l’autonomia differenziata: per chiederla alla neo-premier (perché la Meloni sarà neo-premier, nonostante il rosicare dei sodali di centrodestra) bisogna godere della compattezza periferica garantita da una fresca leadership. Prima la si decide, meglio è. Sa di rancido il rituale di congressini, congressucci, congressetti local/graduali per arrivare al definitivo “federale”. Il cambiamento chiama ad ammissione di colpe, analisi lucida, velocità di trasformazione, nomi affidabili. Un ritorno alle origini modellato sulle esigenze del presente. Non del futuro: si andrebbe troppo in là, e alla prossima partita elettorale la Meloni vincerebbe tutto il vincibile ch’è rimasto. Ghiacciando i superstiti del Carroccio che fu: un fenomeno chiamato gelodurismo.
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