Non è sempre colpa della natura.
La violenza delle acque che si è abbattuta sulle Marche non avrebbe forse fatto tutte quelle vittime se si fosse provveduto per tempo a realizzare le indispensabili opere per contenere il fiume Misa. Che da decine e decine di anni provoca danni e dolori al territorio interessato dal suo viaggio.
Ho un personale ricordo. E, quando sento e vedo tracimare un corso d’acqua, mi torna alla mente.
Quand’ero bambina veniva a trovarci spesso a casa una cara amica di mamma, la farmacista Anna Corradi. Era emiliana, come la cadenza della sua bonaria ma ferma voce denunciava, ed era responsabile della farmacia dell’ospedale di Circolo. Donna dotta e molto attenta alla realtà e alle vicende del nostro Paese, si era fatta portavoce delle preoccupazioni di un fratello ingegnere che di fenomeni di tracimazione e di gravi alluvioni, di cui abbiamo sempre sofferto in Italia, aveva fatto un suo cavallo di battaglia, proponendo studi e soluzioni, senza essere troppo ascoltato. L’ingegnere studiava, disegnava e scriveva, quasi sempre invano, a chi di dovere, insistendo sulla necessità di rafforzare gli argini e producendo studi e disegni utili a contenere i bacini interessati.
Mio padre prese a cuore la causa della nostra amica. E pensò di rivolgersi a Fanfani, ormai politico impegnato, che aveva avuto occasione di frequentare in anni di esilio.
Dopo il periodo di guerra trascorso in Albania e in Sicilia, papà si era dovuto rifugiare nel ‘43, sciolto l’esercito italiano, in Svizzera. Perché il rientro nella casa di famiglia era stato ben presto interrotto a causa della temuta delazione di un vicino di casa.
Proprio durante il severo internamento era entrato in contatto con Fanfani, che allora, da esule a sua volta, teneva corsi di economia alla Home universitaire dei rifugiati di Losanna.
Mio padre si offerse dunque di scrivere al lontano amico, che non sentiva da tempo, e inviargli le considerazioni scritte, con relativi studi, di Corradi.
Fanfani fu cordiale, gli rispose, e accolse le carte con attenzione e interesse.
Non sono poi in grado di dire a memoria quanto le preoccupazioni e gli studi dell’ingegnere, apprezzati da Fanfani, fossero stati presi in considerazione davvero da altri e da chi di dovere.
Ma ogni volta che vedo immagini, e leggo, di tragedie causate da alluvioni mi viene in mente la tenacia e la passione dell’amica Anna nel sostenere le considerazioni di un fratello intelligente e rivolto al bene degli altri. E che già più di sessant’anni fa cercava di mettere in guardia il suo Paese,, dove di alluvioni se ne sono poi viste troppe.
Intanto piangiamo sulle Marche e su persone che forse, con un po’ più di lungimiranza, potrebbero essere ancora tra noi.
Le prime constatazioni hanno già portato alla considerazione di eventuali incurie e omissioni.
Sempre a proposito delle dimenticate Marche, e per rimanere in tema di incuria, da Roccafluvione, un paesino in provincia di Ascoli Piceno, mi arrivano a volte telefonate di un anziano amico. Si interessa sempre di come stiamo, e intanto racconta che attende da troppo tempo di poter rientrare nella sua proprietà, acquistata con sacrificio e ristrutturata per anni, con grande amore, ma inagibile a causa di edifici confinanti ancora in rovina dopo l’ultimo, devastante terremoto.
Siamo tutti certi che non è solo la fatalità a farci del male, ma ci sono colpe di cui è ora di ammettere le responsabilità. E che dire, impossibile dimenticare, dell’albergo di Rigopiano o della funivia del Mottarone?
Quel cavo sfilacciato, penzolante come un cappio dopo la tragedia – che in molti abbiamo subito notato – individuato da recenti indagini come segno di colpevolezza, è simbolo di una trasandatezza che deve lasciare il posto al senso di responsabilità e all’ impegno, nel rispetto della vita di tutti.
Prima che la tragedia torni a bussare alle nostre porte.
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