Dopo aver sentito che c’è chi vuole introdurre di nuovo il servizio militare obbligatorio per insegnare i sacri valori della Patria, ma soprattutto disciplina ai giovani, o che bisogna mandare i giovani (sempre loro) a fare sport pagando borse di studio e corsi, la prima reazione potrebbe essere “niente di nuovo sotto il cielo della nostra destra, tutte cose già viste”.
Tuttavia, ricoprendo io un ruolo di osservatore privilegiato e cioè quello di Assessore ai Servizi Sociali del Comune di Varese, vorrei provare a svolgere qualche riflessione partendo dai due principali problemi nazionali (tra i tanti che ci circondano) e cioè l’inverno demografico e l’emergenza educativa. Con una premessa però. Entrambi non sono solo fortemente legati, ma sono anche condizionanti del generale stato di crisi del Paese e del sistema Italia.
Il miglioramento delle condizioni sanitarie dovuto al progresso tecnologico e alle scoperte scientifiche ha provocato da un lato l’invecchiamento della popolazione, ma anche un impatto non indifferente sulla demografia nazionale.
Se l’aumento delle aspettative di vita è un successo del sistema di welfare, per effetto dei mutamenti valoriali e delle consuetudini si assiste anche a una influenza, da parte, appunto, dell’andamento demografico, nei confronti dell’operato della classe politica. La classe dirigente sarà sempre più propensa a fare riforme e leggi che favoriscono la platea maggioritaria di un ceto anziano meno incline alle innovazioni e quindi, per definizione, più spinto verso la conservazione.
E, paradossalmente, un Paese spinto dalla maggioranza della sua popolazione alla conservazione è un Paese che non cerca protagonismi, non si lancia in avventure e non sfida il futuro e quindi non svolge neanche, perché non è nel suo interesse, alcun ruolo nel proscenio internazionale.
Innalzare l’obbligo dell’età scolastica è un modo per rispondere alla crisi educativa, alle diseguaglianze e affrancare i ceti popolari e disagiati del nostro Paese.
Innalzare l’età dell’obbligo scolastico portando il ciclo dai 3 ai 18 anni non è sottrarre i figli ai genitori, alla famiglia, ma significa dare delle opportunità di crescita, di istruzione, di miglioramento a prescindere dall’appartenenza iniziale della persona al proprio ceto.
La scala sociale ormai da decenni ferma nel nostro Paese la si riattiva introducendo elementi nuovi che diano la possibilità anche ai ceti meno abbienti di far crescere i propri figli offrendo le stesse opportunità di chi ha ben altra forza economica. Tutte le ricerche ci raccontano da anni che, nel nostro Paese, chi ha genitori laureati ha più possibilità di frequentare l’università e laurearsi, con le relative ingiustizie professionali e sociali verso gli altri.
Un sistema che porta l’obbligo scolastico da 3 a 18 anni non può reggersi su classi pollaio, sull’assenza di insegnanti di sostegno, su edifici fatiscenti e su insegnanti sottopagati e questo solo per citare alcuni dei problemi che ci riguardano.
Investire sull’educazione significa mettere in condizione le donne di avere quei servizi in più necessari ai figli e permettere loro di poter proseguire la carriera lavorativa. Significa mettere al servizio delle famiglie un “sistema della conoscenza” pagato dallo Stato, gratuito e che, gioco forza, non potrà che essere pubblico e cioè statale e non statale. E significa anche aprirsi ad un sistema che investe sulla persona e sulla sua capacità di migliorarsi come antidoto alla fragilità rimettendo in rete, con strumenti e sostegni rinnovati, tutte le agenzie educative oggi in crisi.
L’inverno demografico si abbatte investendo ora e solo tra dieci anni si potranno avere risultati così come le dinamiche che possono influenzare il trend di crescita della popolazione sono diverse e variegate (la Francia insegna al riguardo), ma investire sull’educazione con tutto quello che la circonda è influire in buona parte sulla fiducia che le persone possono avere sul futuro.
Investire sull’educazione in maniera massiva significa rispondere al bisogno di riannodare i fili spezzati nelle persone e delle persone. Significa rispondere alla fragilità sempre più accentuata e non lasciare da sole le persone. Un Paese giovane è un Paese dinamico che non ha paura del futuro. E questa è forse la più grande scommessa che possiamo fare ora, altro che “rivoltare l’Italia come un calzino”.
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