Settantacinque anni nelle storiche elezioni del 18 aprile del 1948, quelle in cui si confrontavano apertamente e rumorosamente la Democrazia cristiana e il Partito comunista, Alcide De Gasperi dettò un monito ai suoi candidati: “Cercate di promettere un po’ meno di quello che pensate di realizzare se vincerete le elezioni”.
Una lezione di serietà. Completamente dimenticata da tutti i partiti che si sono confrontati in queste elezioni per il rinnovo del Parlamento. Elezioni nate dalla sciagurata volontà di porre fine all’esperienza di Governo di Mario Draghi con un Paese che non ha ancora superato il trauma della pandemia, che deve gestire una difficilissima fase di politica estera con l’aggressione russa all’Ucraina, che si trova di fronte alla grande emergenza della crescita dei prezzi dell’energia e quindi dell’inflazione.
Ebbene da destra a sinistra le promesse elettorali hanno tutte, proprio tutte, puntato sull’aumento della spesa pubblica, sulla diminuzione delle entrate fiscali, sulla crescita del deficit con l’elegante definizione di scostamento di bilancio.
Si va dalla flat tax, cioè sulla tassa piatta che diminuirebbe il prelievo fisale per i redditi medio-alti, al rinnovo indefinito dei bonus per le ristrutturazioni edilizie, dalla riduzione del cuneo fiscale (quindi meno tasse o meno contributi per le pensioni) all’elargizione di contributi straordinari per i giovani.
Lo Stato è considerato una cornucopia, quel mitologico corno della dea dell’abbondanza ricco di fiori e frutta che perennemente si rinnovano e che garantiscono una vita di prosperità e felicità per tutti.
Ma la politica non è mitologia, gli dei sono ormai confinati nell’Olimpo, e chi gestisce il Governo non può non fare i conti con la realtà delle cose, con il fatto che i denari non si creano dal nulla, con l’esigenza di non attuare provvedimenti per i quali gli effetti negativi possono superare, spesso di gran lunga, quelli positivi.
Certo promettere ricchezze e concessioni può sembrare la strada più facile per ottenere consenso. E peraltro la politica della spesa pubblica è stata teorizzata da grandi economisti, come John Maynard Keynes, come uno degli elementi utili per superare momenti di crisi economica. Il problema per l’Italia è che la spesa pubblica ha continuato a crescere, con l’unica eccezione del Governo di Mario Monti dopo la crisi del 2011, ed ha assunto una forte velocità soprattutto con la pandemia e con la sospensione dei vincoli di bilancio adottati dall’Unione europea. Spese in gran parte giustificate, per l’esigenza di limitare l’impatto sociale della crisi, ma in parte anche dettate da populistica esuberanza. È il caso del superbonus del 110% che ha finanziato soprattutto le ristrutturazioni delle villette unifamiliari. Così come di altri bonus elargiti a pioggia al di là e al di fuori di specifiche esigenze personali o familiari.
Tuttavia nessun bonus è gratis. Per spendere di più lo Stato non può che indebitarsi e lo può fare se mantiene affidabilità: in pratica se dimostra che la spesa è utile alla crescita, e quindi una garanzia di onorare i debiti. In questa prospettiva il prossimo governo ha di fronte una grande sfida: garantire ai mercati finanziari e all’Europa la sostenibilità del proprio bilancio senza il prestigio internazionale di Mario Draghi.
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