“Parole” è un titolo poco originale per una rubrica, mi rendo conto. Un titolo anche generalista che può funzionare da scappatoia giornalistica consentendo all’autore di disporre di un contenitore per gli argomenti più disparati.
Questo titolo al direttore lo avevo proposto io quando ricercavo una modalità flessibile per dare voce alle suggestioni provenienti da parole stimolanti per la loro etimologia, o per il loro significato primario che le può salvare dalla banalizzazione dovuta a un uso quotidiano sciatto e superficiale, o per la crescente desuetudine che le allontana dalla lingua parlata.
Per capire quali parole mi avevano colpito ho compiuto un excursus nei miei articoli passati, sollecitata dall’ascolto alla radio del linguista Ivano Dionigi già rettore dell’Alma Mater di Bologna il cui ultimo libro si intitola “Benedetta parola. La rivincita del tempo”.
Creatura e creatrice, secondo Dionigi, la parola custodisce e rivela l’assoluto che siamo. Potente o fragile, benedetta o maledetta, simbolica o diabolica, essa può fungere da “medicina” così come da “veleno”; può comunicare o isolare, consolare o dare affanno, salvare o uccidere.
Per i classici è icona dell’anima, sede del pensiero, segno distintivo dell’uomo. Per la sapienza biblica si pone all’inizio della creazione e rende possibile lo “scandalo” cristiano dell’incarnazione. Dionigi ci invita a recuperare il valore pieno della parola troppo spesso ridotta a chiacchiera, barattata come merce qualunque, non di rado usata per mistificare.
Ci fa qualche esempio: parole come flessibilità, economia sommersa, legge di mercato, celano i veri spiacevoli significati: disoccupazione, lavoro nero, sfruttamento. Sono andata a ripescare qualche parola su cui avevo ragionato e scritto.
Avevo proposto resilienza, termine oggi inflazionato e sfruttato con sfaccettature sociali, politiche, economiche mentre una decina di anni fa la parola era transitata dal settore tecnologico al linguaggio pedagogico per chiarire la forma e la sostanza della straordinaria capacità di bambini abbandonati in situazioni al limite del sopportabile – come succedeva ai bambini di strada – di resistere ad ambienti ostili attuando impensabili strategie di sopravvivenza.
Parlavo di disposofobia, disturbo da accumulo o da accaparramento compulsivo di cui soffriamo un po’ tutti noi abitanti delle società opulente; oggi che la realtà ci presenta il conto, se non per scelta almeno per necessità, saremo in futuro meno disposofobici. Avevo scoperto un sorprendente, nuovo significato della parola affluente, che in questa accezione non è il fiume che porta acqua ad un altro corso, bensì un aggettivo coniato negli Usa da un potente avvocato per un giovane diciottenne accusato dell’omicidio stradale di quattro persone.
L’avvocato riuscì a far accogliere la seguente bizzarra quanto scandalosa tesi: il suo cliente era solo un “povero” giovane affluente, così viziato, così ricco, così immerso nel benessere da aver perso il contatto con la realtà fino a ritrovarsi incapace di distinguere il bene dal male.
Che dire infine della disperanza? Parola obsoleta che apparve nella nostra lingua intorno al XIII secolo ma trova ancora oggi posto nella Treccani che la descrive come lo stato di chi è privo di speranza ma si colloca qualche passo indietro rispetto alla disperazione di cui è una forma più lieve.
Ora che rileggo ciò che scrissi allora, eravamo in piena pandemia, provo un certo sollievo a imbattermi in questo termine che sottolinea il lato positivo della “parola”: essere balsamo, medicina per l’anima. Per buon augurio offro in dono la parola disperanza a chi vive momenti di gravi difficoltà, perché possa intravedere uno spiraglio di salvezza, una via di uscita dalla incombente disperazione che invece “opprime l’essere umano con inconsolabile sconforto e grave abbattimento morale”.
You must be logged in to post a comment Login