Quando si dice Scuola genovese, nel mondo della canzone, il primo nome che viene subito in mente è quello di Fabrizio De André. È stato lui con le sue ballate e con la sua voce inconfondibile, calda e profonda, a sdoganare e a promuovere in modo definitivo il “cantautorato” italiano, pur raggiungendo il successo anni dopo Carosone, Buscaglione, Modugno, e smarcandosi anche da alcuni artisti coevi quali Gino Paoli, Peppino Di Capri, Tony Renis. Questi ultimi, ciascuno alla sua maniera, non si era mai qualificato come autore a tutto tondo, cosa che invece riuscì bene a De André.
Sul finire degli anni Sessanta egli si poteva considerare a buon diritto il “capostipite” di una Scuola, di un fenomeno musicale tipicamente italiano, intelligente e raffinato, benché fosse stato costretto a toccare la notorietà attraverso la diffusione di un disco singolo – La canzone di Marinella – (inciso nel 1965 anche da Mina) ed entrato nella leggenda. E pure De André, sempre rimasto piuttosto schivo (fino al ’75 non tenne concerti), per farsi conoscere dal grande pubblico era dovuto passare attraverso uno special televisivo della durata di una mezz’ora, ma intenso quali altri mai.
Si racconta che per scrivere “Marinella”, De André si fosse ispirato a un fatto di cronaca realmente accaduto. Anche questa caratteristica di trarre spunto – in modo mai banale – dalla storia, dal costume, dalla letteratura, fu una caratteristica tipica del cantautore genovese. In breve – e siamo ormai agli inizi degli anni Settanta – il nome di De André venne associato a quelli di Francesco Guccini di Modena, classe 1940, la stessa del genovese, e di Francesco De Gregori, di Roma, più giovane degli altri due di undici anni. La lunga e feconda stirpe dei cantautori italiani era cominciata; ed era stata battezzata.
Torniano a Genova. (“Genova, un’idea come un’altra”, ha scritto Paolo Conte, anch’egli straordinario autore e musicista, di Asti). Vi è da noi sempre la tentazione a catalogare e a semplificare, come nei bigini scolastici. Tuttavia non pensabile ascrivere alla città della Lanterna una particolare fortuna musicale. Milano, Venezia, Firenze, Roma, Napoli, Palermo sono tutte città che nello stesso campo avrebbero qualcosa da vantare.
In realtà, a una decina di anni dalla fine della seconda guerra mondiale, Genova era stata luogo di coagulo per alcuni giovani musicisti di talento: Umberto Bindi (1932-2002), Gino Paoli (1934), Luigi Tenco (1938-1967), Bruno Lauzi (1937-2006), appunto Fabrizio De André (1940-1999); Paoli e Tenco, tra gli altri, si erano ritrovati a suonare nello stesso gruppo musicale: “I Diavoli del Rock”, passato alla storia soltanto perché i due ne avevano fatto parte. Ma a smitizzare il concetto di Scuola fu proprio Bruno Lauzi, per altro legatissimo alla città di Varese, dove abitò per tutti gli anni Sessanta e dove, per esempio, compose la sua canzone più famosa, “Il poeta”, che lo fece assurgere all’empireo dei cantautori.
Sì a Genova si erano ritrovati in diversi – raccontava Lauzi – ma lui, Bruno, era nato all’Asmara, in Eritrea; Gino Paoli era originario di Monfalcone e Luigi Tenco era di Cassine, in provincia di Alessandria. In quanto all’essere coscienti di fare parte di una Scuola, anche qui Lauzi aveva qualcosa da ridire. Come per esempio sul fatto che Paoli e Tenco, per un certo periodo, evitavano anche di parlarsi. Se uno dei due stava in un locale e entrava l’altro, uno se ne andava. Storie di donne, pare. E di caratteri.
Il che non toglie che entrambi abbiano donato all’Italia poesie e musiche importanti.
Le canzoni sono così, talvolta ruvide e scontrose e talvolta dolci. Come la vita.
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