Ho conosciuto il Pakistan nell’estate del 1994, un unico e breve incontro rimasto però indelebile.
Devo a mio padre Giovanni la conoscenza della magia del viaggio: non gliene sarò mai abbastanza grato, dei suoi tanti lasciti è quello cui sono più affezionato. Ha schiuso i miei orizzonti già in tenerissima età e in maniera irreversibile: a cinque anni sono salito sulle gobbe di un cammello in Tunisia, a sette ho attraversato la Piazza Rossa, a nove ho navigato su un battello per le isole Orcadi, a undici guardato dal basso verso l’alto un’imponente cascata islandese.
Poi a dodici una meta diversa da tutte le altre, fin dal primo passo consumato dentro ai suoi confini, a un’altitudine che non avrei mai più toccato nel corso della mia esistenza: i 4700 metri del Khunjerab Pass. Lì arrivammo attraversando la Cina da est a ovest, congiungendo Pechino a Xi’an, Urumqi e a tutto l’incredibile Xinjiang, una Repubblica Popolare che sa di Mongolia e di Asia Centrale, non più di mandarino. Era, questo itinerario, la famosa Via della Seta.
Anche dell’infinito Dragone a un certo punto si conquista la punta della coda, nella fattispecie in una terra possente e desolata, nella quale l’uomo non trova posto se non di passaggio. Dal versante cinese il nastro d’asfalto sale unico e sperduto tra altipiani e vette di altezze già inusuali per noi del vecchio continente. E gli spazi sono sconfinati, almeno fino al crinale, dove si cambia registro non solo perché si entra in un mondo culturalmente agli antipodi, ma anche paesaggisticamente: la strada, prima sinuosa, svela un baratro che in breve tempo ti inghiotte. Questa picchiata ha un nome abbastanza celebre, Karakorum Highway, e, proprio in corrispondenza della frontiera, un monumento ricorda quante vite umane è costato scavarla tra gole e dirupi.
La natura del Pakistan non ha nulla di dolce: è forte, decisa, impattante come un pugno nello stomaco, almeno in quei primi chilometri fatti di roccia, orridi, torrenti che cadono a lato di un “sentiero” per macchine e camion definibile highway solo abbondando di fantasia. Se resisti, se non cadi, ecco il premio: valli verdeggianti circondate da montagne di un marrone che sfuma nel beige, a proteggere campi coltivati grazie alla magnanimità dell’Indo, aprire innumerevoli valli laterali e nascondere, sembra un controsenso ma è così, altre montagne, le più alte della Terra.
È seguendo il ricordo di una di esse che questo racconto trova un senso. Con un pullman abbandonammo l’altopiano di Chilas, inerpicandoci verso Dalain, dove, il giorno successivo, a mezzo di una jeep avremmo di nuovo toccato altezze piuttosto vertiginose, percorrendo una carrareccia precaria e piena di buche. La tappa per la notte era fissata in un villaggio di quella valle laterale, ancora non conquistata dal turismo se non per un piccolo hotel che fu proprio il nostro ricovero. «Da qui si vede il Nanga Parbat» annunciò la guida all’arrivo, ma il buio non ci permise di verificare.
Mio padre ebbe allora un’idea, “un’intuizione” di bellezza che ha gettato le basi di un momento indimenticabile e ancora pulsante in me, sebbene siano passati esattamente 28 anni: decise che l’indomani avremmo puntato la sveglia alle 4.30, per cercare di scovare il Gigante avvolto nelle luci dell’alba.
Così fu. Ci svegliammo e uscimmo nell’aria frizzante, salendo fino a un piccolo belvedere sopra l’albergo. Non un’anima intorno a noi. Lo spettacolo fu da togliere il fiato: a distanza di decine e decine di chilometri, eppure così vicini da credere di sfiorarli, incastonati tra una fila di picchi laterali ancora immersi nel buio, ecco gli 8126 metri del Nanga illuminati dal primo raggio di sole mattutino. Ecco la “Montagna Nuda”, non solo una delle più alte, ma anche una delle più belle, maestose, pericolose e inaccessibili del globo terracqueo.
Sembrò che Dio avesse deciso di aprire le quinte di quel teatro naturale solo per noi. Rimanemmo bloccati e in silenzio, storditi dall’emozione e dall’estasi. Passato poco, vicino si fecero quattro uomini del posto, vestiti da lavoro, probabilmente muratori. Non ci fu nemmeno il tempo di provare timore: si fermarono a poca distanza e si misero ad ammirare anch’essi la loro montagna, in quella che per loro era probabilmente una piacevole consuetudine, “ricompensando” il nostro interesse verso la stessa con grandi sorrisi di compiacimento e gratitudine a noi, di tanto in tanto, rivolti.
Senza scambiarsi una sola parola (sarebbe stato inutile, d’altronde), quattro pakistani e due italiani vissero attimi di una comunione sentimentale così intensa da far fatica a rammentarne una simile.
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