1966, più di 50 anni fa. Ventidue anni appena compiuti e decido di trascorrere un mese – Agosto – in una fabbrica olandese che produce materiale ceramico, resistente ad alte temperature. Il soggiorno e l’esperienza di lavoro sono promossi da intese tra l’Università di Chimica di Milano, di cui ero studente e quella di Delft, Olanda.
Viaggio in treno da Milano e incontro due migranti di Molfetta che sarebbero finiti nella stessa fabbrica dove avrei fatto la mia esperienza: nientemeno che a S’Hertogenbosch, la città natale del grandissimo pittore olandese.
La lunga percorrenza in cuccetta crea simpatia e fraternità e già all’arrivo in stazione un gruppo di italiani in attesa dei due invita tutti e tre a casa di pugliesi, che ci aspettavano con polpette in salsa di pomodoro. Vino di Squinzano e poi, un po’ traballante, arrivo alla casa dove sarei stato ospitato e mi meraviglio di come fosse illuminata senza il riparo di alcuna tenda alle vetrate.
È la casa del magazziniere della fabbrica, gran bevitor di birra, che mi spiega che i dipendenti di cui si occupa sono tutti pugliesi, reclutati attraverso intermediazioni personali fiduciarie e che sono addetti ad un reparto molto insano, con trecento posti di lavoro e doppi turni.
Naturalmente sorge una forte solidarietà tra me e loro e subito si concretizza il regalo di venire invitato tutti i giovedì a mangiare pugliese a turno presso le diverse famiglie, zeppe di bambini, zie ottime cuoche, scamorze appese alle travi, vasetti di sottolio di ogni tipo e grandi bocce di vino rosso.
Quel pezzo d’Italia non dava malinconia, se non alla sera, quando, dopo la scorpacciata del giovedì, ci si recava insieme alla stazione per vedere passare l’espresso delle 22.40 che andava da Amsterdam a Milano e da lì a Brindisi. Ci si scambiava commossi – dai marciapiedi ai finestrini – i saluti con chi ritornava a casa con le stesse carrozze marroni delle FFSS con cui era arrivato anni prima col treno di notte per Amsterdam.
L’Olanda mi stupiva per la mancanza di una linea di orizzonte: un Reno silenzioso, campi sterminati piatti e ben irrigati, nessuna altura a rompere la calata del sole. Bellissimo muoversi in bici, collezionare i mulini a vento e spiare nelle chiese sempre affollate e risonanti di prediche e canti in una lingua incomprensibile, poiché allora era il tempo in cui si discuteva del “Catechismo olandese”, stimolante e innovativo per tutta la comunità locale e per le chiese di base di Francia e Italia, già in contatto con lo spirito meno rituale del cattolicesimo nordico.
Il mio lavoro in fabbrica era a metà tra il trasporto faticoso di sacchi di silicio in fornace e la redazione di misure di resistenza del materiale prodotto dopo la cottura. Non un granché, come esperienza di lavoro-studio.
Dopo le cinque di sera giravo in bici senza incontrare un minimo strappo di salita. (ma come fanno gli olandesi ad essere ciclisti così forti?). Ricordo bene il borgo dove Bosch fantasticava e immaginava le sue creature folli, così come le sfilate alla domenica di vecchie divise che riesumavano nelle campagne verdissime le battaglie di una terra combattutissima e contesa fino all’ultima guerra.
Ricchi, in genere, gli Olandesi, con case ornate di piatti, tappezzerie e quadri, ma, stranamente, senza libri nelle loro piccole biblioteche. Spesso amanti dell’Italia, visitatissima, ma poco inclini a mettersi in contatto anche culturale con la nostra tradizione.
Grandissimi praticanti dello sport: in particolare della bici, per cui non solo perdevo ad ogni sprint improvvisato durante le gite, ma avrei dovuto subire anche lo smacco di vedere perdere Motta per ritiro al campionato mondiale su strada ad Arnhem e Maspes battuto in finale a Rotterdam nella velocità su pista di cui era maestro.
Al mio ritorno mio padre mi chiese: “allora, come è andata?”. “Si mangiava male” dissi di fretta “e c’era tanto da faticare!”. Ma si fa sempre così coi genitori, facendo un po’ le vittime e sorvolando le cene e i pinzimogli pugliesi oltre alle strisciate silenziose su piccole barche a vela lungo i canali dove d’inverno scivolano i pattini d’argento regalati nelle favole ai bambini che vincono epiche gare nel gelo.
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