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Società

L’HOMME AU MARTEAU

CESARE CHIERICATI - 22/07/2022

hommeConobbi “L’homme au marteau” in una calda giornata di fine luglio 1985. Una sinistra e immateriale presenza che insidia la vita dei ciclisti di ogni ordine e grado, dai professionisti ai cicloturisti. Coltivavo allora vacanze ciclogastroculturali a sei ruote: quattro quelle della macchina e due quelle della bici da corsa ancorata sul tetto. Una Wilier triestina luccicante che curavo con maniacale attenzione. Davanti a noi si aprivano gli itinerari principeschi del Perigord, regione storica del sudovest della Francia, una distesa di fiumi e di boschi solcati da una fitta rete di strade e stradine agricole, tutte ben curate, che portavano in fattorie dai tetti spioventi e in villaggi irreali, senza tempo, che parevano usciti da una fiaba.

È un brano della cosiddetta “France profonde”. Avvertivo una sensazione indefinibile di benessere, una sorta di stato di grazia che è la forma, sia pure quella modesta del cicloturista di misurate ambizioni quale io ero. “L’homme au marteau” me lo trovai accanto cercando di raggiungere il castello di Hautefort, uno dei tanti nella zona, dopo una quarantina di chilometri filanti, rotti inopinatamente da una sosta a base di paté e formaggi in una vecchia osteria lungo un fiume. Il peccato di gola, invero modesto, lo pagai puntualmente sulla salita che porta al castello. Per me si trasformò in un arcigno piano inclinato che mi respinse senza remissione. Quando venni a capo dell’erta di Hautefort ero una sorta di straccio imbevuto d’acqua. Dribblai la sosta culturale al castello e scivolai giù dalla discesa boccheggiando come un pesce in debito di ossigeno.

Compresi che “l’homme au marteau”, mitica figura delle narrazioni ciclistiche transalpine, altro non era che la cotta, cioè il cerchio alla testa, lo stomaco rovesciato, le gambe di gesso, il conto che, a fronte di un’alimentazione non corretta, la bici ti presenta puntualmente e senza sconti. Nella circostanza la mia autostima ciclistica ne uscì ridimensionata ma mi consolai pensando che in fondo, bene o male, avevo messo in cascina un’ottantina di chilometri. Il giorno seguente trovai miglior sorte a Bourdeilles, un villaggio incantato adagiato sulla Drone bianca di fiori. Il ragazzo della reception del piccolo hotel Les Grifons, cucina deliziosa e carta dei vini seducente, rimase incantato dalla Wilier. “Con questa bicicletta” – mi disse – “lei potrebbe fare il Tour”. Risposi che al massimo avrebbe potuto correrlo la bici da sola, vista la nobiltà del marchio e io limitarmi a telecomandarla qualora fosse stato possibile.

Lasciai a malincuore Bourdeilles. Nel giro di due giorni dovevo raggiungere una locanda nel cuore di una mezza foresta oltre Brantòme, cittadina molle di acque con il campanile gotico più antico di Francia. Mi immersi in fittissimi boschi con il solo ausilio delle carte Michelin – il navigatore era di là da venire – alla ricerca della “Chouette gourmande”, la civetta buongustaia dove avevo appuntamento con un “fratello ciclista” che il pellegrinaggio ciclogastroculturale l’aveva compiuto più a Nord.

La “Chouette gourmande” era una vecchia fattoria rianimata da una conviviale e materna signora di mezza età. Avendone le tasche piene di Parigi aveva scelto di riscoprire le gioie della campagna mettendo a frutto, per chi riusciva a raggiungerla, i suoi immensi talenti culinari nella cornice di una cucina vera, al netto di elettrodomestici spaziali, normalizzatori di saperi e di sapori. Che consolazione la sera alla fine di generose sgroppate in sella alla Wilier! Dopo aver accuratamente evitato, in giornata, paté e formaggi propiziatori certi di un nuovo sgradito incontro con “l’homme au marteau”.

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