Chi è come era mio padre? Che voglia di saperlo quand’ero un ragazzo.
Muratore, soldato nelle maledette guerre fasciste.
Un bell’uomo, mi rimanda qualche foto sgualcita: alto, diritto, viso serio e volitivo. Non so molto altro.
Lui se ne va il 21 novembre dopo un’operazione d’ulcera, ovviamente un tumore, e io arrivo il 21 dicembre stesso anno. Sarò stato una consolazione per mia madre o un pesante “pensiero” che si aggiungeva ai cinque che già aveva?
Guai a domandarglielo, era religiosissima. Ringraziava sempre Dio e non potevo nemmeno chiederle per che cosa, che non capivo.
Com’era nato il loro amore? Era stata di lei o di lui scintilla? Di una cosa ero certissimo, la loro prima volta dopo il matrimonio. Non solo perché si usava così nelle coppie normali di allora ma per fervida fede cattolica, certamente di lei.
A chi assomigliavo di più, a lei o a lui? Lei era dolcissima e placava la tensione anche nei drammi che abbiano attraversato. Io, più “rustico”, nelle foto dove fatico un poco a sorridere mi rivedo forse più in lui.
Pensavo a mio padre, per riflesso, quando vedevo mia madre faticare fino all’esaurimento per tirar su sei figli, facendo anche i lavori domestici presso la macelleria Santandrea ancora esistente a Vedano.
E qualche ora la faceva in un’altra brava famiglia.
Non piangeva mai davanti a noi. Una sola volta la vidi cedere di schianto, quando uno dei due gemelli, Luigi, fu sottoposto ad una pericolosa e sperimentale operazione all’ospedale psichiatrico di Varese. Riuscì, ma non abbiamo mai saputo quanto completamente. Quelle chirurgie da laboratorio oggi non si fanno più.
Pensavo a mio padre, in realtà a mia madre, quando a nove anni cominciai a lavorare nella stessa macelleria per farle guadagnare qualche lira in più.
Sgrassavo e sciacquavo la trippa, che per anni non potei più mangiarne. In aggiunta avevo un compito schifoso: ripulivo il sangue del mattatoio dove ammazzavano le bestie con un’arma che sembrava una grossa torcia messa nella parte più larga sulla nuca dell’animale, piccolissimo o grosso che fosse.
Una fortuna se cadeva al primo sparo, altrimenti intervenivano con mazzate sulla testa per il colpo di grazia. Ed io lì, a undici/dodici anni, a vedere tutto e lavare subito il sangue che finiva sul pavimento di cemento.
Queste “torture” terminarono per i miei incubi notturni, ripetuti e interminabili. Così continuai solo con la trippa e a portare la carne nelle case.
Al Mino macellaio malgrado questo ero affezionato perché faceva guadagnare qualcosa a mia mamma. E malgrado un’ingiusta sfuriata che mi fece quando seppe da una certa signora Fieschi che l’avevo offesa rigettandole in faccia qualche ridicola monetina di mancia a Natale per i pacchetti consegnati tutto l’anno.
Nostra madre ci parlava raramente di lui. Penso per nascondere il dolore.
L’ultima volta fu quando venni eletto sindaco giovanissimo. Non so se più orgogliosa o preoccupata, mi disse: “Tratta bene la povera gente come siamo sempre stati trattati bene noi. Te lo direbbe anche tuo papà a cui somigli molto”.
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