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Attualità

CITTÀ UNIVERSITARIA

FABIO GANDINI - 15/07/2022

universita-dell-insubriaL’università è una porta che scegli di aprire. Ci arrivi dopo 13 anni di scuola dell’obbligo, spinto da una corrente in cui hai galleggiato, più che nuotare. Un po’ perché le scelte – quelle vere – raramente sono prerogativa (e abilità) della prima fase della vita, e un po’ perché il tempo precedente è giusto che sia dedicato alla formazione dei sogni.

A quel punto, però, devi iniziare a comprendere cosa fare o essere da grande. Cerco un lavoro o continuo a studiare? E, se continuo, quale facoltà decido di frequentare? E la frequento per intraprendere quale professione, poi? Lo studio diventa la strada maestra verso il lavoro.

Sapere, allora, di varcare le soglie di un ateneo che “trasforma”, con altissima percentuale di realizzazione, i propri studenti in lavoratori al termine del percorso di studio è un grande sollievo. E tale è anche apprendere che l’Università dell’Insubria, la nostra università varesina, riesce nell’intento come poche altre in Italia.

Solo una, anzi, fa meglio: quella di Brescia. L’Università dell’Insubria è infatti in assoluto la seconda migliore d’Italia per il tasso di occupabilità dei suoi laureati: lo ha detto la classifica Censis 2022-23, recentemente pubblicata. Chi entra nelle aule di Bizzozero, ne esce con un lavoro in tasca.

Ma il Censis ha detto anche di più. E cioè che l’Uninsubria, considerati anche altri parametri quali i servizi, le borse di studio, le strutture, la comunicazione, la digitalizzazione e l’internazionalizzazione, è nel complesso la decima università italiana tra quelle di medie dimensioni (fino a 20mila iscritti), pronta a insidiare realtà rinomate come Urbino e già davanti a omologhe di grandi città (Napoli, per esempio). E che anche l’internazionalizzazione è motivo di vanto: Varese in questo caso è addirittura quinta tra i medi atenei.

C’è dell’altro. Il corso di laurea magistrale in Odontoiatria, sempre secondo i parametri succitati, è il secondo migliore della nazione; quello in Giurisprudenza occupa invece la quarta posizione tra tutti i corsi di “legge” dello Stivale, a pari merito con la Bicocca di Milano. E stanno recuperando terreno anche le lauree magistrali del settore scientifico, così come quelle triennali in ambito linguistico e della comunicazione.

Risultati onorevoli, anzi entusiasmanti. A testimoniare una crescita reale e a ispirare una riflessione: con un università del genere a fare da traino, seguire una vocazione da città universitaria potrebbe non essere un’utopia per la Varese che da qualche anno sta ragionando seriamente sul proprio destino, abbandonata finalmente quelle placida inerzia che l’ha portata fino alle soglie del banale dormitorio all’ombra di una metropoli.

Una città universitaria, normalmente di piccole e medie dimensioni (gli esempi in Italia non mancano), è una città che accetta di vivere anche in funzione dell’ateneo che accoglie tra i propri confini. È una città che offre le strutture adeguate per ospitare gli studenti (e qui ci siamo: il progetto dello Studentato di Biumo sarà un bel passo in avanti), una mobilità interna moderna e fruibile (bene allora le implementazioni del servizio di bike sharing e dei monopattini) e le occasioni per rendere la vita fuori dalle aule e dallo studio il più possibile piacevole e stimolante.

Su questo c’è ancora tanto da fare. Rassegne culturali, mostre, concerti, feste, ritrovi, raduni, locali, spazi appositi: le città universitarie sono città giovani che ragionano per i giovani. Varese, per lungo tempo, ha ragionato (e talvolta lo fa ancora) da vecchia… Da anziana signora che nelle novità vede solo un disturbo.

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