“L’acqua, l’acqua!” La voce risuonava nelle piazzette e nei vicoli, si moltiplicava per le stanze delle case, dando vita ad una generale animazione. Nel giro di pochi minuti le donne uscivano recando secchi, barili, brocche, pentole ed ogni altro recipiente già preparato per tempo. Le seguivano i bambini, ognuno con un piccolo orcio adatto alle sue forze, e tutti si affollavano alla fontana più vicina in paziente e ordinata attesa del proprio turno.
Sembra un’immagine del medioevo e invece era il Sud degli anni Cinquanta. Una scena che ricordo bene quando ripenso agli anni della mia infanzia in Calabria, in particolare in questo periodo, in cui si parla sempre più spesso di siccità e di possibile razionamento idrico.
L’ingresso di servizio della nostra casa dava proprio su uno spiazzo dove si trovava una fontana e il fatto che si trattasse di uno spazio abbastanza ampio consentiva alle donne di utilizzare il tempo dell’attesa chiacchierando e ai bambini di inventarsi nuovi giochi. L’atmosfera, nonostante tutto, era allegra: merito dell’acqua che finalmente sgorgava fresca e abbondante. I bambini erano i più contenti: per loro era, al tempo stesso, un gioco e un motivo di orgoglio poter contribuire alle esigenze familiari.
Ma per le donne era un lavoro in più, dopo una giornata faticosa in casa o nei campi. Rientravano cariche di pesi: i barilotti in equilibrio sul capo, qualche recipiente sotto braccio e altri in mano, i figli più piccoli aggrappati alla gonna. Mi sembra ancora di vederle incedere, dritte e fiere, sotto il peso dell’acqua e della vita; e penso a quante generazioni di donne siano state trascurate dalla Storia – una Storia minore ma non troppo – di cui sono state silenziose artefici: con il loro lavoro, i loro sacrifici, la loro eroica rassegnazione.
In genere l’acqua compariva al tramonto, ma non tutti i giorni e, quando accadeva, era molto difficile che la si vedesse uscire dai rubinetti delle case. Quindi, una volta fatta la scorta, bisognava stare sempre attenti a non sprecarla. Probabilmente è stato proprio in quel periodo che ho acquisito un’abitudine al risparmio idrico che ai giovani d’oggi deve sembrare assurda e che invece comincia ad essere consigliata come buona norma di comportamento.
Tuttavia, la sensazione che prevale nel ricordo non è legata al disagio della mancanza d’acqua, ma alla gioia della sua ricomparsa nelle fontane e al piacere di andare a prenderla alla sorgente: ce n’era una a un paio di chilometri da casa, si chiamava – già il nome una promessa – “Bell’e maju/Bella di maggio”. Andare lì per bere o per attingere le piccole quantità che si potevano trasportare a piedi aveva, per noi bambini, il sapore della gita e dell’avventura. Ma anche tra gli adulti si avvertiva aria di festa: per apprezzare il valore di un bene che si dà per scontato non c’è niente di meglio che sperimentarne la perdita.
Per questo – stavo considerando – un eventuale razionamento dell’acqua potrebbe avere il suo lato positivo: far capire a chi la ritiene inesauribile quanto sia importante non sprecarla e come possa essere fonte di gioia, oltre che di vita.
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