La prima volta che il termine “sentiment” si è intrufolato nel mio vocabolario ho provato fastidio per una parola che risuonava come la troncatura non giustificata della meglio nota “sentimento”.
Sentiment è un neologismo la cui nascita la Treccani fa risalire al 2012 e che si mantiene invariato in alcune lingue europee. A caccia dell’etimo e della sua traduzione imparo che in latino si sarebbe detto “sensus”.
Mutuato dall’economia, dove indica l’opinione generalizzata che gli operatori si fanno della situazione contingente di un mercato o di un titolo, nel linguaggio più generale il sentiment diventa il contenitore di umori collettivi, disposizioni d’animo, tendenze di massa in carico più alla sociologia che alla linguistica.
In questi mesi il termine è apparso spesso per spiegare le ricadute psico socio economiche del fattore guerra sulla popolazione italiana.
Ci fornisce costantemente dati sull’argomento l’IPSOS, la società multinazionale che si occupa di ricerche di mercato e di consulenza di carattere internazionale.
Da febbraio a oggi i suoi report elaborati a cadenza mensile hanno messo in luce la progressiva caduta della partecipazione emotiva alla guerra, regressione giustificata appieno sul piano psicologico: davvero arduo reggere l’urto prolungato di quel mix di timore, rabbia, compassione, compartecipazione alle vicende del popolo ucraino. Altrettanto difficile mantenere alto il livello di attenzione sulle fasi di un conflitto che si allunga oltre misura.
Nel corso dei mesi diventa sempre più pesante l’impatto sulla nostra quotidianità delle reiterate sequenze di orrori che molti di noi avevano conosciuto soprattutto dai film di guerra.
Il sentiment della maggioranza degli italiani ci racconta il groviglio di pensieri inquietanti provocati da un conflitto alle porte dell’Europa, ampliato dai mass media, inasprito da talune divergenze ideologiche presenti nelle conversazioni tra amici e conoscenti, rimbalzato dai talk show ai divani dei salotti per disturbare il nostro sonno.
La resistenza al dolore altrui sta perdendo quota: il tempo ha logorato l’iniziale appassionata condivisione dell’emergenza. Non tanto perché arriva l’estate, come ha insinuato qualche cinico osservatore politico, e con l’afa ci si occupa in primis di vacanze, ma perché il superamento della boa dei cento giorni di conflitto ha insinuato nel sentiment nazionale un crescente scoraggiamento.
Rendicontava l’IPSOS a metà marzo sulla presenza di uno stato di disagio per la situazione di incertezza, per il timore di un possibile ricorso alle armi nucleari e di un coinvolgimento diretto dell’Italia nel conflitto. E insieme segnalava l’appoggio della gran parte della popolazione verso le sanzioni alla Russia nonostante ciò comportasse il peggioramento della situazione economica individuale e generale.
Oggi, superata la boa dei 100 giorni dall’inizio dell’invasione, si mantiene alto il sentiment di tristezza, rabbia e incertezza e di apprensione per lo stallo della guerra. Mentre diminuisce drasticamente l’afflato emotivo nei confronti del popolo ucraino: l’IPSOS registra la discesa della percentuale di chi sostiene la causa ucraina contro l’invasore russo. Nei confronti di quest’ultimo aumenta il numero di coloro che auspicano la sospensione delle sanzioni e appare piuttosto nutrita la schiera di quanti non vogliono prendere posizione: oltre 4 su 10.
Stamane apprendo dalla radio che le notizie sulla guerra sono slittate dalla prima dei mesi scorsi alla pagina 18 rilevata oggi in un diffuso quotidiano.
Sento il bisogno di interrompere questo trend: servirà solo a me ma comincerò la lettura da quella pagina, che questo periodo per me in continua ad essere sempre la prima.
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