“Distrutte le porte di ingresso e uscita, manomesse le macchinette per timbrare i biglietti, infranta la vetrina pubblicitaria e rotto l’estintore. Inoltre proprio in alto a destra della vetrina pubblicitaria, è posizionata l’unica telecamera presente di proprietà del bar, che ha ripreso interamente l’accaduto. Domani le forze dell’ordine si recheranno sul posto per acquisire tutto il materiale”.
Questo frammento di cronaca di un quotidiano di Velletri, simpatica cittadina laziale, potrebbe essere l’incipit standard per il racconto degli attacchi vandalici condotti con frequenza pressoché quotidiana contro le stazioni grandi e piccole disseminate lungo l’intera rete ferroviaria italiana e non solo. Infatti le devastazioni sono endemiche anche altrove e affliggono paesi come la Francia, La Germania, persino la stessa Svizzera; nazioni comunque meglio attrezzate dell’Italia nel far rispettare le leggi poste a tutela del bene pubblico.
E’ ormai chiaro che, oltre all’individuazione dei responsabili grazie alla telecamere, per limitare i comportamenti devianti c’è necessità di due ingredienti oggi deficitari: la presenza delle forze dell’ordine e un ripensamento strutturale delle stazioni stesse.
Le telecamere e la varie tecnologie sperimentate, sono utilissime in seconda battuta, a reati consumati, ma risultano poco efficaci come strumenti di prevenzione. A metà degli anni ottanta, nella fase culminante dei sequestri di persona nella vicina Brianza, un maresciallo dei carabinieri, già stretto collaboratore del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa durante la sua stagione milanese, ci disse che l’unica vera arma di contrasto alla criminalità era la prevenzione. “Da praticare, aggiunse, pettinando con assoluta regolarità il territorio”. Pettinare ci parve un verbo molto azzeccato che dava plasticità al lavoro di contrasto.
Sappiamo ovviamente che è più facile a dirsi che a farsi. Sappiamo che le forze di polizia sono perennemente sotto organico, che troppo spesso stanno, per ragioni di istituto, più dietro a una scrivania che sulle strade e nelle periferie difficili delle città. Tutto vero, ma questo perdurante stato di cose lascia da troppo tempo inevasa una crescente domanda di sicurezza e di tranquillità civica di fronte alla crescita esponenziale di atti di violenza, di razzismo, di vandalismo giovanile che molto spesso vanno in scena proprio nelle stazioni ferroviarie divenute luoghi inospitali e semiabbandonati, a rischio soprattutto durante le ore serali e notturne. Resta tuttavia da capire perché proprio le stazioni siano oggi uno dei bersagli preferiti della delinquenza e della microcriminalità.
Negli ultimi cinquant’anni i trasporti ferroviari sono cambiati e molte di queste strutture sono diventate anonimi luoghi di transito senza alcuna identità. Figure storiche che gestivano le stazioni – capistazione, manovratori, frenatori, manovali e altri addetti – sono state spazzate via dalle tecnologie meccaniche, dai computer, dalle biglietterie automatiche. Le ragioni di bilancio hanno alla fine prevalso nell’illusione che gli operatori in carne ed ossa fossero in tutto e per tutto sostituibili con la tecnologia. Così le stazioni sono rapidamente diventate luoghi disabitati e di predazione, del tutto estranee al contesto urbano circostante.
Forse da tempo è arrivato il momento di tornare di nuovo a stazioni costruite e organizzate per accogliere i viaggiatori offrendo servizi di ristoro, di attesa e comfort generale in rapporto all’importanza della località servita. Una strada imboccata con decisione dalle Ferrovie federali svizzere che in concomitanza con l’apertura di Alptransit, la trasversale alpina sotto il San Gottardo, hanno avviato un programma di ammodernamento radicale delle principali stazioni ticinesi: Bellinzona, Lugano, Locarno, Mendrisio e Chiasso. Sul tavolo sono stati messi 100 milioni di euro più altri fondi per migliorare anche gli scali minori. Come dire, con lo scrittore Carlo Levi, che “il futuro ha un cuore antico”.
You must be logged in to post a comment Login