Nella lieve, appena appena sbocciata, ben lungi dall’essere memorabile, primavera sportiva varesina c’è posto anche per la pedata.
Anche? Sì, anche. Perché prima ci mettiamo (e ci accontentiamo di) una Pallacanestro Varese salva e in procinto di cambiar pelle grazie a Luis Scola, un varesino onorario come Gianmarco Pozzecco che diventa ct della nazionale italiana di basket e l’impresa del tainese Alessandro Covi sulle erte del Giro d’Italia.
Piccole gioie, a bucar la neve di un inverno rigido e quasi permanente, cui affiancare finalmente anche il calcio. Le pagine che riportano la gloria, in questo caso, sono solo quelle locali. E il nome che vi compare non è quello storico, Varese Calcio, ma Associazione Sportiva Dilettantistica Città di Varese.
Più che una ragione sociale, un riassunto di sventura. Sono i suoi tesserati, infatti, gli eredi di chi è morto e risorto tante volte, per poi morire di nuovo. Poche ma notabili gioie (la serie A sfiorata prima con l’indimenticabile Giuseppe Sannino in panchina, poi con il valente collega Rolando Maran), catastrofici faccendieri spesso all’uscio di casa, ripartenze locali volenterose ma povere, marchiani errori di gestione e disinteresse imprenditoriale: questo il menu degli ultimi due lustri e mezzo.
Nel 2019 il punto più basso: l’ennesima sparizione e un nuovo inizio con una nuova società, stavolta – però – dal gradino più sommesso possibile e immaginabile, la Terza Categoria provinciale. Un’infamia sportiva per i tifosi cittadini, peraltro tra i più stoici dell’Italia pallonara: Varese è una città di palla al cesto, lo sanno tutti, ma la resistenza passionale di chi ama il calcio biancorosso – capace di muovere il “popolo” verso la Bombonera di Besozzo con lo stesso spirito gagliardo ed entusiasta che lo trascinava verso i teatri calcistici della Serie B – non ha eguali nemmeno nei supporters della pallacanestro.
Il fondo appena descritto rende notabile ciò che c’è oggi: il Città di Varese (ma chi lo ama lo chiama ancora, semplicemente, il Varese) ha appena vinto i playoff della Serie D. Riavvolgiamo ancora il nastro per capire meglio. Dopo aver conquistato il torneo sugli scalcinati campi provinciali, la fuga in avanti è stata compiuta negli uffici: la neonata associazione ha infatti rilevato per fusione il titolo sportivo del Busto 81, ottenendo il diritto di concorrere alla Serie D e di gestire nuovamente il proprio vecchio e amato nido, lo stadio Franco Ossola. La stagione che ne è seguita, quest’ultima, è stata travagliata: in campo giovani di belle speranze e qualche bandiera (capitan Donato Disabato e Giulio Ebagua: il secondo, però, si ritira subito), in panchina Ezio Rossi, senza tuttavia riuscire mai a dare una continuità di risultati e di gioco, con il Novara – l’antagonista principale – in fuga promozione e non più ripreso. Ad aprile la svolta: via Rossi, dentro Gianluca Porro, giovane mister preparato, umile e dai modi gentili. Sotto di lui i biancorossi accedono i playoff e fanno fuori, nell’ordine, Casale e Sanremese (e in Riviera, per la partita decisiva, dalla Città Giardino migrano in 200…).
Serie C, dunque? No: vincere i playoff comporta solo il diritto di essere inseriti in una graduatoria di ripescaggio. In pratica la società si mette in lizza per essere chiamata a fare il salto di categoria, qualora chi avesse un diritto di precedenza per meriti sportivi dovesse rinunciare e a patto di garantire il possesso di requisiti finanziari e strutturali.
E qui potrebbe cascare l’asino: il Varese li ha? Chi lo guida (i veri proprietari, non i presidenti senza portafoglio) può mettere sul piatto 600 mila euro (richiesti dalle regole) più almeno due volte tanto per allestire una rosa che combatta almeno per la salvezza? E lo stadio? Ci si riuscirà a mettere d’accordo con il Comune per eseguire i lavori di ammodernamento propedeutici anch’essi alla licenza?
Il futuro è una pagina bianca e un altro, nuovo bivio: tra una dignità sportiva restaurata o l’ennesima ignominia. Come purtroppo di rigore nell’epopea di questa bella sventurata della pedata.
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