Già Karl Rahner in uno scritto del 1951 prelusivo alla futura opera Mysterium salutis (realizzata dal 1965 al 1976 in cinque fitti volumi e in sette tomi) aveva proposto si desse alla teologia una nuova impostazione: “La dogmatica è uno sforzo dell’intelligenza e una scienza che devono servire al proprio tempo… perché devono servire alla salvezza e non alla curiosità teoretica”, sì da essere essenziali in quanto opera di pensiero esistenziale rapportata alla vita umana. Mysterium salutis maturava la vocazione al contempo a una teologia biblica, col recupero dei risultati del lavoro esegetico, storica a integrare i dati della ricerca in sede di studi patristici e di storia dei dogmi nella consapevolezza di una linea di sviluppo, alfine sistematica nell’utilizzo di una vasta gamma di categorie teoretiche.
Nei documenti conciliari la Chiesa è vista non come una grandezza a sé stante, bensì relativa al Cristo, da cui riceve essere e struttura, nonché al mondo, in cui è inviata come segno e strumento di salvezza. Relativizzazione in apporto all’origine come alla missione nel mondo. Yves Congar nel saggio sintetico del 1961 “Si può definire la Chiesa?” si appellava in merito a quattro categorie: 1)quella di popolo di Dio (v. poi la Lumen gentium del 1964); 2)quella di corpo di Cristo (v. la Mystici Corporis Christi, Enciclica di Pio XII, 1943); 3)quella di società soprannaturale, di largo impiego nell’ecclesiologia post-tridentina (non utilizzabile per Congar); 4)infine di comunione.
Per Walter Kasper, segretario generale del Sinodo a conclusione del post-Concilio (1965-1985) la comunione (koinonia) è proponibile come idea di fondo, non da intendere però alla luce del greco laos come una sorta di democrazia, bensì dall’alto. La Chiesa riceve la sua vita non dal popolo, né dalla gerarchia, bensì dalla parola di Dio e dai sacramenti. Di contro la teologia neo-scolastica, caratterizzata dal deduttivismo, con le sue conclusioni astoriche e atemporali e il positivismo magisteriale.
Durante il Concilio appare La Parola di Dio del francese Marie-Dominique Chenu (1964). La fede è una “vera incarnazione divina nel mio spirito”, la teologia è “la fede in statu scientiae”, non è altro che la fede solidale con il tempo. Gesù non fa appello alla teologia, ma chiama alla conversione (metanoia) e alla sequela. La fede e la spiritualità e la pratica che ne derivano costituiscono l’atto primo, la teologia è l’atto secondo, “è lo strumentario razionale di una religione universale in stato di missione” e deve costantemente porre in correlazione la risposta della fede con la domanda umana.
Karl Barth e Rudolf Bultmann concordano nel superare l’interpretazione storicista della Bibbia, dove va perso il carattere rivelativo del testo. Per Barth comunque si tratta di un’ermeneutica della rivelazione, non della significazione, mentre Bultmann interroga il testo biblico perché sveli la sua significazione per l’esistenza umana, quindi si tratta di un’ermeneutica esistenziale in dialogo con l’analitica esistenziale del primo Heidegger. I teologi evangelici Fuchs ed Ebeling si pongono in dialogo con la filosofia del linguaggio del secondo Heidegger. Il testo del Nuovo Testamento è il linguaggio dell’amore, ci fa capire la nostra esistenza sfidata dalla morte (Fuchs). Per Ebeling il parlare di Dio deve essere il più rigoroso ed esigente possibile in termini di responsabilità.
A partire dalla seconda metà degli anni sessanta con Edward Schillebeecks si passa a un’ermeneutica sociale e politica del Vangelo e del fatto cristiano, che diviene teoria di una prassi critica e liberatrice. Al di là dei confini dell’Occidente cristiano si sviluppa la teologia della liberazione. Per Yves Congar (discorso di Strasburgo, gennaio 1979) grazie al Concilio Vaticano II l’urbs si è decentrata sull’orbis, la città sul mondo: cattolicità è universalità.
You must be logged in to post a comment Login