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Editoriale

DELPIERISMO ED ERESIA

MASSIMO LODI - 18/05/2012

Il delpierismo sbroccato dalla festa juventina dello scudetto non è solo un’esagerazione bianconera. Il delpierismo è il gattusismo o l’inzaghismo celebrato dai milanisti a San Siro. È il guidolinismo applaudito dai tifosi dell’Udinese dopo la qualificazione alla Champions. È l’emozione, il brivido, il lusso del sentimento. Ecco come possiamo definire il delpierismo: la sentimentalità, chiamandola in questo modo per separarne il significato dal sentimentalismo. Il sentimentalismo è d’un segno negativo, una specie di sentimentalità affogata nella melassa, e dunque qualcosa d’inadatto ad esprimere l’asciuttezza (la purezza) di cristallo del sentimento. La sentimentalità è l’affermazione del tanto di genuino che sta dentro ciascuno di noi.

Domenica scorsa è successo questo. Che la sentimentalità ha trovato occasionali, specialissimi, agevolati canali d’espressione. E vi si è trasfusa di getto, con impeto naturale ed effetto di trascinamento effusivo. Non una grande novità, guardando a quel che succede di solito nel calcio (e in altri sport, non solo di massa, diversi dal calcio). Ma non una piccola novità, osservando il momento storico, la circostanza epocale, il passaggio economico-sociale in cui ha dato testimonianza di sé: milionate di testimonianza di sé. La sentimentalità s’è come presa una rivincita sull’algidità, sui numeri di tracolli vari e dolorosi, sulle cifre d’una crisi depressiva e inarrestabile.

Covava da tempo, la riscossa della sentimentalità. La coprivano le ceneri del gran bruciare di risparmi, posti di lavoro, sicurezze varie e assortite. La brace però fiammeggiava. Seguitava ad alimentarsi del suo fuoco. È bastato qualche colpo di vento dello sport, del calcio, per rimetterne i bagliori al centro del camino popolare (del cammino esistenziale). A volte lo sport e il calcio sono capaci di tali miracoli (absit iniuria). Che poi si riassumono e sostanziano in un miracolo solo: la prevalenza del cuore sulla ragione. Non sempre è un bene che il cuore prevalga sulla ragione, ma ogni tanto non è un male che l’evento (il prodigio, verrebbe da dire) si verifichi.

Il delpierismo, e altro (un’infinità d’altro) che può andare sotto il suo ecumenico nome, rappresenta la vittoria dell’implicito sull’esplicito. Di quello che racchiudiamo gelosamente su quello che con prudenza esterniamo. Dell’interiorità spirituale (il tifo per una squadra di calcio, per un campione, per qualcuno o qualcosa a noi caro, che cos’è, se non un atto spirituale?) sui volgarismi della consuetudine materiale. E non è la rappresentazione improvvisa d’un tot di sbalorditivo e inimmaginabile; è la naturale conseguenza d’un vincolo saldo, datato in anni lontani, costruito con pazienza invece che in fretta, tuffato nelle profondità dell’anima anziché galleggiante sulla superficie dell’effimero. Il delpierismo è il silenzio del cuore che trova una ragione per uscire dal suo riserbo, e la ragione è l’irragionevole fede nella sentimentalità. Non vedevamo l’ora d’assegnare alla sentimentalità lo scudetto del nostro personale campionato di provinciali della vita, sempre in lotta per non retrocedere nell’abisso del realismo. Sempre militanti nella squadra d’una fede religiosamente laica. Sempre in sospetto che il delpierismo sia un’eresia, e non invece che sia un’eresia non praticarlo.

 

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