Lo scrittore triestino Boris Pahor, recentemente scomparso all’età di 108 anni, convinto che l’Europa avesse bisogno di un cambiamento di rotta, al compimento del suo centesimo compleanno, indirizzò ai giovani cinque preghiere. La prima chiedeva a loro di “essere fedeli alla propria identità”.
Con la nascita della prima Comunità Europea e con il processo di integrazione europea che si estese ad altri paesi, furono assicurate alle minoranze dei paesi membri il rispetto delle proprie identità linguistiche. Anzi proprio la lingua rigenerò due stati: la Slovacchia e la Céschia o diede inizio ad un’ampia autonomia ad altri gruppi linguistici come i fiamminghi e i valloni in Belgio, i corsi e i bretoni in Francia, i catalani e i baschi in Spagna. La ricchezza dell’Europa risiede proprio in questa molteplicità di culture, la cui differenza accresce quella europea.
Nella storia dell’Europa, civiltà e barbarie si sono intrecciate, il continente fu teatro di guerre di religione, in esso la “pulizia etnica” si è esercitata in molti modi, i nazionalismi hanno provocato nella metà del secolo scorso due guerre mondiali, nell’Europa centro–orientale si sono create in modo rapido, tumultuoso, violento, contraddittorio Stati etnici che dovevano essere “purificati” da dittature. Nel 1989 in molti Stati e popoli dell’Europa è nata una nuova Europa e il confine segnato dall’Oder si è aperto quando si è delineata una comune appartenenza all’Unione Europea.
Anche l’Ucraina con la caduta dell’URSS divenne libera e democratica, ma nelle elezioni politiche furono eletti presidenti russofili corrotti soggetti a Mosca, i quali furono destituiti con la “rivoluzione arancione” dapprima e con quella di Maidan successivamente. L’ultimo presidente filo–russo fuggì all’estero. Il resto è cronaca recente. Il Donbass, la regione a est confinante con la Russia, abitata anche da russofoni, è stata invasa dalle truppe russe con il pretesto di “denazificare” il territorio. In realtà, il motivo è che l’ingresso dell’Ucraina rappresenta(va) agli occhi della confederazione russa un presumibile – molto recondito e improbabile – rischio di pericolo per la Russia.
Potrà, a conflitto terminato, l’Unione Europea accettare, come ci auguriamo, l’Ucraina tra i suoi paesi membri? Sì, a patto che la stessa UE porti a termine il suo lungo e tentennante processo d’unità politica. Come? Attraverso la revisione dei Trattati, che “permetta di trovare soluzioni tempestive ai problemi dei cittadini” (Draghi al Parlamento Europeo il 3 maggio scorso). Se si dovesse allargare l’Unione a un numeroso gruppo, essa diverrebbe ingestibile se venisse mantenuta l’attuale struttura istituzionale e decisionale. La prima Comunità era stata concepita per sei Paesi e ha funzionato finché arrivarono a quindici. Non è tanto il numero dei paesi membri, ma la loro diversità di civiltà politica e giuridica, oltre che di esperienze storiche, che creano ostacoli al buon funzionamento dei processi decisionali.
Si sa che il nodo gordiano è il diritto di veto, cioè il voto ad unanimità. Per sciogliere questo nodo si potrebbe pensare ad un’Unione a più velocità, come espresso da Romano Prodi, da Enrico Letta, da Draghi, da Macron. L’Unione potrebbe essere formata: 1)da un cerchio interno (sei Paesi fondatori più Spagna) a carattere sovrannazionale formato dai Paesi disponibili ad andare verso un livello di maggior integrazione sulla moneta unica e libera circolazione dei cittadini; 2)da un cerchio esterno a carattere confederale formato dagli attuali membri e da quelli che aspirano all’adesione; da un cerchio centrale funzionante a regole “intervallate”, data l’indisponibilità già dichiarata di alcuni paesi di accettare modifiche ai Trattati.
Questa metamorfosi è imposta dall’impellente crisi energetica, dai processi di globalizzazione, da una comune politica estera e di difesa che l’attuale conflitto in Ucraina esigono. Ci si può perdere, tutti insieme. Ma ci si può salvare, tutti insieme.
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