No, non è Capodanno. Anche se alle 22 e 57 in punto dal palazzo di fronte a casa esplode una girandola di fuochi d’artificio che via via si estende a tutto il quartiere. E non è neppure Carnevale, anche se il sino a ieri compassato titolare del Bar Castroni in via Boccea oggi ti serve il caffè con la testa non solo rasata a boccia, ma divisa in due emisferi perfettamente uguali: uno dipinto di giallo e uno di rosso.
Piccole istantanee di un dopo vittoria. Quella della Roma contro il Feyenoord che, grazie all’allenatore Mourinho, ha infranto un tabù che durava dal 1961, da quando cioè la Roma vinse la prima coppa europea, quella delle Fiere che oggi non esiste nemmeno più.
È qui la festa. Quando l’arbitro fischia la fine della Conference League, un fiume in piena travolge le strade della capitale. I cinquantamila che allo Stadio Olimpico hanno seguito sui maxi schermi la finale da Tirana sciamano urlanti verso il Circo Massimo e il Colosseo. In una piazza del Popolo strapiena, i tifosi giallorossi festeggiano con un bagno nelle fontane. Tutti gridano e si abbracciano: tra bengala e tamburi inizia una carovana di auto strombazzanti che durerà sino a notte fonda. C’è il clacson a sirena, quello che sembra il settimo cavalleggeri e persino trombette prese in prestito dai cartoni di Popeye. E pazienza se per questa notte non si dorme.
Cosa significa la fede giallorossa, che i più integralisti del tifo definiscono “romanismo”, lo spiegano Giorgio e Andrea Landolfi. Due fratelli nati e cresciuti in via XX Settembre. «Viviamo a Milano – raccontano – non siamo riusciti a prendere il biglietto per Tirana. Ma quando abbiamo letto che la Roma apriva il nostro stadio non ci abbiamo pensato due volte: ci siamo fatti 600 chilometri tutti d’un fiato pur di essere qui». «Ora mi devo tagliare la barba – urla intanto Christopher Toti, 30 anni, indicando il pizzetto tinto di giallorosso – è un fioretto. L’avevo promesso». Chissà se conosce il gestore del bar Castroni.
A.S.Roma, 1927. “Non la si discute, la si ama” recita un comandamento scritto nei cuori dei tifosi. Per loro la squadra è un affare di famiglia e l’Olimpico una propaggine di casa. È un dispositivo identitario in un momento storico in cui scarseggiano punti di riferimento. Un fenomeno sociologico dove lo sport in quanto tale c’entra sino a un certo punto. Le feste romaniste vanno avanti per settimane tra appuntamenti al Circo Massimo, spogliarelli, scalinate ridipinte, feste in ufficio e per strada, grigliate per strada, quartieri drappeggiati coi colori della squadra. È successo per gli scudetti dell’83 e del 2001. E risuccesso il 25 Maggio: “notte di coppa e di campioni”.
Il romanista adora informare il mondo della sua appartenenza calcistica. Porta al colo il lupacchiotto simbolo della squadra, si tatua il gladiatore sul braccio. Conta su una serie infinita di gadget (dal cappellino alla tastiera usb, dalle bretelle al bruco giallorosso da ostentare sul retro della autovettura). Si abbevera ad almeno sei (!) radio locali che si occupano a tempo pieno della Roma. «Ed è tutto così eccessivo, così eccitante, così psichedelico – taglia corto un collega giornalista al Corriere della Sera – Bisognerebbe essere tifosi della Roma per capirlo. Lasciate stare».
E intanto a notte fonda arriva un WhatsApp di un nipote che sul balcone della sua casa in piena Concorezzo pianta fiero una bandiera della Roma. Speriamo che la sezione locale della Lega non la prenda come una provocazione.
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