La prima. Difficile essere obiettivi su Gianmarco Pozzecco, personaggio divisivo come pochi nel mondo dell’italica pallacanestro.
Difficile ieri, quando si mangiava il campo a suon di serpentine. Ma anche oggi, presente in cui si è costruito una seconda carriera in giacca e cravatta. E pure domani, ovunque il fato lo porterà. Dino Meneghin, altro nome universale del nostro basket, ai tempi in cui indossava canotta e pantaloncini era guerriero idolatrato dai propri tifosi e detestato da quelli foresti: poi, però, è diventato un monumento, un simbolo, raggiungendo la pace nelle passioni altrui.
Al Poz non accadrà: o lo ami, o lo odi. E così sia. A Varese, in Italia, in Europa.
Chi sta scrivendo lo ama, perché ha iniziato a innamorarsi della palla a spicchi ammirando quella commistione di talento e spirito con cui lui, puffo, sfidava e sfiniva i giganti. Un imprinting senza pari, solo poi leggermente annacquato dai doveri professionali di imparzialità e oggettività.
La seconda premessa. Il licenziamento, perché questo è stato, di Romeo Sacchetti dal soglio azzurro, senza preavviso e a tre mesi di distanza dagli Europei che l’Italbasket giocherà (parzialmente) in casa, è l’ennesimo atto della dittatura tutt’altro che illuminata del presidente federale Gianni Petruccci sullo sport dei canestri. In un contesto in cui il movimento non cresce, è periodicamente dilaniato da guerre fredde e paralizzanti sull’asse FIP-Lega e sconta una povertà (di mezzi, di idee, di appeal) di fondo accettata ormai come strutturale, il politico (perché tale è) romano continua a usare la nazionale come un feticcio personale e ossessivo, pensando che siano solo i traguardi raggiunti dalla stessa a poter salvare il destino del nostro basket.
E allora ecco gli allenatori sedotti e abbandonati, le continue ingerenze verbali e pubbliche sull’operato degli stessi e dei giocatori, le mosse a sorpresa che da fuori – ci perdonerà – paion solo dei colpi di testa celoduristi.
Il vero problema è che la pallacanestro italiana non trova nemmeno un’alternativa all’essere comandata da tale auto-compiaciuto padre padrone: alle ultime elezioni federali il Giannino ex presidente del Coni non ha avuto neanche l’onore di essere sfidato… Mettiamoci l’animo a quiete: la gestione personalista andrà avanti chissà per quanto e il Meo non sarà l’ultima vittima.
Spiace che a far fuori l’uomo di Altamura non siano stati i risultati (in realtà ottimi, vedi le Olimpiadi raggiunte dopo più di tre lustri e con un’impresa indimenticabile nella terra dei maestri serbi) e spiace che nei confronti di un personaggio così amato (anche a Varese) siano mancati il rispetto e la gratitudine: cambiare allenatore è legittimo; annientarlo senza, tra l’altro, il minimo senso di opportunità, no.
Scritto ciò, Gianmarco Pozzecco a capo dell’Italia è una sfida accattivante e meritata. Affranchiamoci sia dall’ex giocatore (ormai un bel ricordo) che dal personaggio (che non farà male alla dimensione mediatica dalla pallacanestro italiana, a patto che migliori nella sua continenza): parliamo del coach. Un signor coach, per due motivi. Il primo: ha dimostrato di avere delle idee tecniche valide e non omologate, né conservative. Giusto un inciso, per chi un minimo si interessa: il doppio lungo, ovvero schierare in campo – come si faceva una volta – un pivot e un’ala grande veri, è una scelta che nelle sue convincenti stagioni sassaresi ha pagato e ci ha permesso di ammirare un gioco affascinante, bilanciato e coraggioso, finalmente emancipato dalla comodità a-spettacolare del tiro da fuori.
Il secondo: Pozzecco non ha avuto paura di fare dei passi indietro per imparare davvero come si dirige una squadra. Dopo il fallimento, soprattutto emotivo, della sua esperienza da allenatore della Openjobemtis Varese (stagione 2014/2015), è andato umilmente a scuola, emigrando e sedendosi da vice sulla panchina del Cedevita di Zagabria, comandata dall’ex compagno biancorosso Veljko Mrsic. E lo stesso ha fatto quest’anno, abbeverandosi alla fonte di Ettore Messina, in quel di Milano.
Non è da tutti e non è soprattutto dal Pozzecco che in tanti credono di conoscere. Sbagliando. Perché dietro alle camicie strappate e alle altre matterie del repertorio, c’è un uomo e un professionista molto intelligente.
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