Calma e gesso viene da dire leggendo le accalorate e talvolta allarmistiche cronache di questa primavera varesina. Un giorno la città è raccontata come un eden variopinto, una terra promessa di valli, vallette, laghi, sorgenti, parchi e monti inviolati da esplorare a piedi, in bici, su amene barchette elettriche, il giorno dopo viene descritta come un Bronx in fieri dove spacciatori e consumatori di droghe la fanno da padroni o quasi, annidati in piccoli fortini inespugnabili addirittura dislocati tra i sentieri e le rocce del Sacro Monte e del Campo dei Fiori, nei boschi e nei boschetti sparsi tra i laghi o in fatiscenti aree dismesse. Come da copione ignorate dai legittimi proprietari in ossequio al vecchio collaudato costume: si punta a socializzare le perdite.
Il fenomeno indubbiamente esiste ma, diciamolo con chiarezza, Varese non è il Parco Lambro o Rogoredo prima dei meritevoli interventi di risanamento di qualche anno fa. Tanto meno è la famosa “scena aperta” di Zurigo anni ’80-’90, una cittadella della droga cresciuta pochi passi fuori la stazione ferroviaria, a qualche minuto a piedi dalla mitica Bahnhofstrasse delle banche e degli gnomi della Borsa elvetica.
Non si tratta di minimizzare o peggio ancora di sottovalutare, si tratta semplicemente di non smarrire il senso delle proporzioni. Se denunciare è doveroso e utile alla collettività per richiamare l’attenzione di chi deve istituzionalmente occuparsi di questi accadimenti non lo è altrettanto allarmare, dare corpo alle ombre, far passare l’idea che la “città giardino” è a cinque minuti dalla mezzanotte. Non è così.
La spinta a cambiare registro, a voltar pagina la si vede dai tanti cantieri aperti, tra mille difficoltà, per uscire dalle troppe inerzie passate e quindi per darsi un rinnovato appeal urbano come risposta possibile allo strisciante degrado. La Caserma, l’area delle stazioni, Largo Flaiano, lo Studentato per universitari di Biumo Inferiore, il nuovo Politeama sono i tasselli cardine di una promessa di rinnovamento di cui, al momento, si fa ancora fatica a indovinare gli esiti finali. Anche in questo la narrazione corrente appare ondivaga e altalenante. Un giorno si alimenta la rassegnazione civica e nel successivo si prospetta l’idea che un eden urbano è alle porte.
È vero che chi informa giornalmente lo fa a strappi e a ondate emotive partendo magari dalla cronaca spicciola, dai nervi scoperti di qualcuno troppo a lungo toccato da lavori interminabili e da incurie endemiche, ma è altrettanto vero che servirebbe maggiore equilibrio nel valutare ciò che dal 2016 si cerca di fare per tirar fuori dalla secche una città che stenta ad affrancarsi dalle sue storiche trascuratezze, dalla sue eterne discussioni, dalla sue tante miopie.
Non si tratta ovviamente di fare sconti a chicchessia ma di stare semplicemente ai fatti. Nell’area delle stazioni, per esempio, i ritardi accumulati sono molteplici, ma le cause sono sotto gli occhi di tutti: dalla paralisi imposta dal Covid ai cedimenti delle vetuste sottostrutture di piazzale Kennedy; dalla complessità di alcune demolizioni interne al sedime ferroviario FS all’impennata internazionale del costo delle materie prime, fino alla tragedia dell’aggressione russa all’Ucraina con tutto quel che comporta e soprattutto comporterà.
I rendering accattivanti mostrati a corredo dei progetti iniziali risultano alla fine fuorvianti, a volte persino illusori e indisponenti per i cittadini. Bisognerebbe avere il coraggio civico – politico di dire con chiarezza dall’inizio che le italiche strade delle realizzazioni e della concretezza – in campo pubblico anche a Varese- sono quasi sempre lastricate di difficoltà burocratiche, di labirintici bandi, di ricorsi al Tar che ritardano e bloccano per anni non solo il cammino degli investimenti ma anche quello delle buone intenzioni.
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