Siamo a un anno dalla strage del Mottarone. Paginate di giornali, report televisivi, interviste a forze dell’ordine, magistrati, soccorritori, parenti delle vittime. Tutto da leggere, ascoltare, vedere in penoso raccoglimento. La fune che si stacca, lo schianto della cabina 3, i viaggiatori catapultati nell’abetaia venti metri sotto. Una fulminante corsa alla distruzione, purtroppo indimenticabile. Come la sopravvivenza del piccolo Eitan, partito da Stresa con papà, mamma, fratellino, bisnonni, e unico scampato alla tragedia. 13 morti su 14 passeggeri.
Nell’anniversario della ricorrenza la cima della montagna ha brillato d’un sole estivo. Poi l’acquazzone notturno, un classico sul Lago Maggiore quando la calura va oltremisura, il vapore afoso s’addensa, i nembi prendono consistenza volgendosi in pioggia. Un che di simbolico, stavolta, ripensando al grondare di lacrime disperate. Mai finite, da allora a oggi. E non pare da tradurre come retorico, il cenno: semmai da cogliere come inchino alla pietà.
La premessa per dire cosa? Per dire, eccoci al dunque, che nell’insieme del mesto ricordo la riproposizione d’una voce stonata rompe il coro della tacita misericordia. Davanti al microfono televisivo un papà sconvolto dall’accaduto sussurra al figlioletto, indicando la traccia dell’ex funivia: dovevamo salirvi anche noi. Ma non c’era più posto. Diciamo grazie all’angelo custode che ci ha salvato la vita.
Così, d’amblè, fuori d’ogni prudenza di fede, d’un qualunque ritegno morale, di qualsiasi sussulto di compassione. Al netto dell’istinto reattivo al terrore: ma come, lì si son tranciate tante esistenze, precipitati nel dramma affetti carissimi, e tu, casuale eccezione al massacro, rendi omaggio al tutore celeste che avrebbe scelto quali anime preservare e quali no? Ma chi pensi d’essere, un tizio speciale garantito dalla grazia divina? Una persona così meritevole d’avere un futuro davanti a sé, piuttosto che un passato dietro le spalle, da farsi preferire ad altre? Un ombelico del mondo attorno al quale il resto gira, secondo un ordine misterioso di favore miracolante?
Ecco, questa non è fede. Questa non è preghiera. Questa non è civiltà dello spirito. Questo è fuoco egoistico mascherato da religiosità sgangherata. È il culto inconsapevole dell’io, l’ignoranza ingenua del noi. Una testimonianza di spontanea inutilità: il tic d’attenzione professionale che sempre dovrebbe presiedere ai servizi giornalistici non è scattato, e sullo schermo abbiamo assistito al peggio cui si può assistere. Cioè una comunicazione massmediatica che non si cura del rispetto verso i morti, gli afflitti, gli sconsolati. Era meglio il silenzio. Come quello di un’alpe, una vetta, un’altura che infondono il senso di pace. Esso sì, di conforto alla fede, altrimenti immaginabile mentre s’allontana su una fuggivia.
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