Quella turca si rivela come una democrazia fragile, ma percorsa da fermenti di rinnovamento. Ci sono tante Turchie: quella che si richiama all’eredità di Mustafa Kemal Atatürk, riconosciuto come Padre della Patria; quella nazionalista; quella curda che reclama l’autodeterminazione e rifiuta di essere assimilata; quella infine che si richiama ai canoni religiosi tradizionali, reagendo all’impostazione laica dello Stato. Ultima è quella dei giovani disaffezionati verso la politica. Il Partito della giustizia e dello sviluppo (AKP), col suo leader Erdogan, offre una visione monolitica della società, più nazionalista e più religiosa che nel passato.
Il 15 luglio 2016, giorno del fallito colpo di Stato, è stato celebrato come il giorno della democrazia e dell’unità nazionale; il colpo di Stato ha segnato la punta della profonda frattura esistente all’interno del gruppo islamista (i conservatori di Erdogan e il movimento terroristico di Fetullah Gülen). Le istanze civili hanno prevalso su quelle militari, ma la repressione del golpe ha determinato nel Paese frustrazione e sfiducia collettiva, anche a causa delle purghe che continuano. Fitta è la rete clientelare, numerosi giornalisti e figure politiche sono in carcere. Pesanti le operazioni antiterroristiche contro il Fetö di Gülen e il PKK (Partito dei lavoratori curdi), nonché contro l’ISIS. Si è costituita un’alleanza tra l’AKP e la destra nazionalista (MHP) per traghettare il Paese vero un presidenzialismo esecutivo, con una sindrome di accerchiamento che tende a vedere lo straniero come un nemico. Onde il rilancio da parte di Erdogan di logiche clientelari, polarizzando la società tra simpatizzanti e oppositori del Presidente.
Per reazione per la prima volta il partito islamista Saadet si è coalizzato con il partito repubblicano fondato da Atatürk, scardinando la tradizionale divisione fra laicità e religione. Si protesta contro il progetto del Governo di favorire un recupero delle istanze religiose, contro l’adozione del velo islamico. Il consenso verso il Governo meno si regge a causa degli attentati terroristici, delle missioni militari all’estero, dell’emergenza COVID, delle tensioni con l’Occidente e le serie crisi economiche. La moneta nazionale è fortemente svalutata.
Particolarmente delicata è la questione curda. Preoccupano l’improvvida trasformazione del Museo di Santa Sofia in moschea e l’uscita della Turchia dalla Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne. C’è un problema di diritti umani. Si invocano provvedimenti giudiziari equi. È messo al bando qualsiasi tipo di manifestazione pubblica non organizzato da apparati filogovernativi. Rimane intanto congelato dal 2005 il negoziato di adesione all’UE. Con l’acuirsi delle tensioni nella regione la Turchia oggi è il Paese che ospita più rifugiati al mondo, tra cui circa quattro milioni di siriani, per un terzo costituiti da bambini sotto i dieci anni (il 25% annovera giovani tra i dieci e i venti anni), con scarse inclinazioni a tornare nel Paese di origine. L’accordo Turchia-UE ha fornito risorse finanziarie per alleviare le sfide dell’integrazione sociale, però con l’aumento delle reazioni anti-europeistiche nella società turca. Si registra la connotazione araba di interi quartieri in alcune città, che genera dinamiche di compartimentazione urbana. Una parte della società civile, seppure ostacolata dal controllo politico, riesce ad organizzarsi e aspira a una maggiore autonomia. Molto più critici nei riguardi della politica i giovani della generazione Z (nati fra il 1997 e il 2012), che aspira a una Turchia laica e liberale.
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