Questo periodo dell’anno, ricco di manifestazioni organizzate intorno al XXV Aprile, si sta chiudendo con il lascito di qualche nuova suggestione che riesce a elevare l’orizzonte del dibattito oltre il consueto rito delle commemorazioni e delle celebrazioni.
È stata soprattutto la guerra a rimescolare le carte, anche attraverso le discussioni sulla somiglianza tra la Resistenza italiana di 80 anni fa a quella ucraina di oggi, sugli eroi e sui malvagi.
Sono rientrate nel linguaggio comune, attualizzate, parole come sacrificio, eroismo, partigianeria, resilienza, generosità insieme a quelle caratterizzate dal segno negativo del Male come guerra, armi, torture, prigionieri, vittime.
Davanti alle scene di morte e di violenza è riapparsa talvolta anche l’espressione “banalità del male” riferita agli autori di crimini efferati spesso compiuti con indifferenza e cinismo.
Fu usata da Hannah Arendt, quindi uscita dalla penna di un’intellettuale ebrea scampata allo sterminio, che in veste di giornalista inviata al processo che si celebrò a Gerusalemme nei confronti del nazista Eichmann, coniò la definizione “banalità del male”.
Il film dedicato a quell’esperienza della filosofa include documentari originali che ci presentano un uomo dimesso e ordinario, dalla voce monocorde e impersonale mentre descrive le fasi del suo lavoro “impiegatizio”: contare e distribuire i prigionieri nei vagoni dei treni diretti ai lager, senza provare alcun interesse per il destino delle persone condannate a morte sicura.
Il suo compito di carattere esecutivo non necessitava, a suo parere, di ulteriori spiegazioni.
Ascoltando Eichmann si percepiscono l’assenza di emozioni e il vuoto di umanità: un uomo grigio e all’apparenza innocuo che contribuì alla realizzazione del male in modo asettico, mantenendosi emotivamente estraneo alle sofferenze altrui.
Non voglio assuefarmi all’uso dell’espressione “banalità del Male”, anche quando viene riferita a un uomo insignificante.
Anno dopo anno, atrocità dopo atrocità, siano esse appartenute al passato oppure presenti nell’oggi, non riesco ad accettare l’idea che il Male possa essere definito “banale”.
Al contrario, è facile individuare una certa dose di consapevolezza in tanti di coloro che lo hanno esercitato in passato o lo stanno attuando oggi.
Non sono “banali” le malvagità della maestra d’asilo che picchia il piccolo disabile; né quelle delle ragazzine di scuola media che bullizzano pesantemente la compagna perché straniera; o che siano ordinari esecutori del Male, al limite dell’inconsapevolezza, il marito o il compagno che dopo aver reiterato violenze fisiche e psicologiche su una donna, decidono di porre fine al conflitto con un omicidio.
Trovo inopportuno mantenere uno sguardo di superiore disprezzo verso persone all’apparenza normali che si fanno esecutori di azioni indegne come l’automobilista che attraversa a folle velocità un centro abitato, investe una persona e poi l’abbandona agonizzante sull’asfalto.
Ci sono esplosioni del Male per le quali qualcuno riuscirebbe a trovare qualche attenuante, tralasciando il fatto che il Male, a differenza del Bene, spesso viene scelto deliberatamente come mezzo di interazione con il prossimo.
Voglio imparare a guardare con occhi più attenti, e quindi meno superficiali o colpevolmente indulgenti, il male dovunque e comunque si esprima e si realizzi materialmente. Perché lo sforzo richiesto da questo esercizio mentale ci potrà aiutare a valorizzare e a esaltare il compimento del Bene, senza cedere alla tentazione di utilizzare per esso l’espressione” banalità del bene”.
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