Premessa. Quella a seguire è una nota che si presume realistica/fattuale e basta. Più che mai, quando si parla d’informazione, giù dalla cattedra. Però su le antenne a intercettare naturaliter un andazzo che stupisce, e suscita automatiche reazioni.
L’andazzo è questo. In alcuni conversari su piccolo schermo imperversano opinionisti di variopinto sapere/non sapere, cui è concesso generoso spazio, di rado popolato da incalzanti obiezioni. Ne sortiscono comizi inutili a capire meglio la guerra d’Ucraina, utili a seminare di dietrologia ogni azione politica dell’Occidente che sta difendendosi dall’aggressione russa. Che sciccheria democratica, il pregiudizio anti-Usa e anti-atlantico e il neutralismo ambiguo.
Ovvio dar voce a tutti, meno ovvio farlo acriticamente e mirando (magari/di sicuro) a litigi che favoriscono l’audience. Così si transita dall’informazione-spettacolo, che già rappresenta una variante di largo spettro, allo spettacolo-informazione, che ormai va imponendosi come modello prevalente. Siamo alle parole mirate a realizzare numeri. E fin che lo fa una tivù privata, cicci suoi, al netto della professionalità. Ma se lo fa una tivù pubblica, cicci nostri. Al lordo di quanto paghiamo tramite canone.
La Rai offre un ottimo lavoro grazie agl’inviati al fronte, a Mosca, in molte capitali estere. Non in alcune trasmissioni di presunto approfondimento. Da ok (1) i giudizi di Caio, che ha cognizioni acclarate sulla materia di cui viene chiamato a dissertare. Da ko (2) quelle di Sempronio, che non vanta titoli per proporre tesi poi discusse a vuoto, essendo piene di buchi. Sembrerebbe scolastico/elementare, scegliere competente garbo. Invece si preferisce l’asilo/il cortile: avanti a gridare, più forte possibile.
Infine il caso “aberrante e osceno” (Draghi dixit) a nome Lavrov, ministro degli Esteri russo invitato a colloquiare su Retequattro senza uno straccio di ragionevole e dovuto ping-pong. Qui siamo o all’impreparazione d’un intervistatore che lascia basìti; o a un concordato monologo, solo all’apparenza dialogo, che ci infligge eguale stupore. Ridicolo argomentare che trattasi di scoop mondiale cui qualunque mass medium anelerebbe, e le critiche nascono dal rosicare. Lo scoop è se intervisti chi, chiedendogli che cosa. Se no, lo scoop non lo fai tu, televisione: lo fa lui, propagandista.
Tanto poco per concludere che la guerra scatena effetti collaterali malinconici (si va per eufemismo) e non ne è esente una parte di coloro che ce la raccontano. La pace da raggiungere al più presto è anche tra le coscienze giornalistiche, deponendo le armi d’una concorrenzialità da tank show.
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