Oggi, domenica di Pasqua, presto / un’improvvisa tempesta di neve / si è abbattuta sull’isola.
Mai come in questi giorni abbiamo ricordato i versi di Primavera 1938. O ce li hanno fatti ricordare. Nel marzo di quell’anno era iniziata la guerra di conquista di Hitler con l’annessione dell’Austria. Bertold Brecht, in esilio sull’isoletta danese di Fůnen, con versi intensi nella loro struggente essenzialità, porta la grande storia dentro l’apparente normalità del quotidiano.
Era il 18 aprile, domenica di Pasqua, e tra i cespugli verdeggianti c’era la neve. Suo figlio lo strappa dalla scrivania, dove era impegnato a scrivere versi contro coloro che stanno preparando una guerra che può cancellare il continente e lo invita a prendersi cura di un piccolo albero: un albicocco tremante di freddo che viene coperto da un sacco. Un gesto semplice, un gesto di vera empatia solidale. L’umanità dell’amore anche verso un alberello durante la bufera, in quella Pasqua di tanti anni fa ma che sentiamo terribilmente vicina. Forse per questo può assumere un significato particolare pensare che dopo il 17 aprile, festa di Pasqua, nonché domenica dei salici per il rito ortodosso, e prima del 24, Pasqua ortodossa, si celebra il 22 la giornata mondiale della Terra.
Forse il susseguirsi ravvicinato di queste date obbliga, in questa primavera del 2022, a riflessioni non scontate. Anche se innegabilmente molti sono demotivati dal rituale legato alle più svariate giornate mondiali, dedicate a problemi diversi, male non farebbe ricordare la genesi dell’Earth Day, nato il 1970, come movimento universitario educativo e informativo sulle problematiche del pianeta: si parlava di un problema di sopravvivenza. Ma l’idea era già stata discussa nel 1962.
Un libro, Il silenzio della primavera di Rachel Carson, ammoniva che si sentivano sempre meno i canti primaverili degli uccelli a causa dell’uso massiccio degli insetticidi. E in quegli anni si combatteva la lunga guerra del Vietnam, che come tutte le guerre, era intrisa di sangue, di ferite agli uomini e alla madre Terra. Sessant’anni hanno fatto dimenticare i danni dei pesticidi usati – di fatto – come arma di guerra nel Vietnam? Davvero è tutto così lontano nel tempo e nello spazio? Scontata è la risposta, meno scontata è la solidale empatia del gesto amoroso di Brecht verso un albicocco flagellato dalla neve. E offeso da ben altre bufere, come ben capiamo.
O come dovremmo capire. Quando impareremo ad ascoltare chi sa leggere il futuro rischiosamente costruito? Vogliamo davvero la terra desolata e disabitata, come è stata anticipata dall’angosciante film ucraino, Atlantis? Fu apprezzato alla mostra del cinema di Venezia del 2019 per la crudezza profetica delle cicatrici anche sulla natura provocate da una guerra che avrebbe portato la distruzione nel Donbass nel 2025. Profezia di un futuro molto prossimo che è già presente. Se spesso temiamo le profezie ritenute fastidiosamente apocalittiche, cerchiamo almeno di ascoltare le voci del passato.
Rileggere i versi di Pasqua di Gea, scritti a Bonn e pubblicati a Milano nel 1891 da un ventiquattrenne, può essere stimolante. Si obietterà che Luigi Pirandello non divenne celebre per quei versi, fatti di eleganza di settenari con echi carducciani e vitalismo niciano. Si obietterà che quella raccolta non celebra la Pasqua cristiana e neppure ha i moniti inascoltati da anni sui danni che arrechiamo al nostro pianeta. Tutte obiezioni legittime ma almeno sentiremo l’ansia inquieta di un giovane e il suo amore per la potenza rigeneratrice della Natura. Nell’ottava poesia della raccolta si legge: Pace della terra, nel sole, pace di primavera, nel silenzio delle palpitanti foglie, nel vivace cinguettar degli uccelli che si allontanano; sarai tu forse l’oscura della terra preghiera. Il cielo sereno che accoglie i raggi del sole, che la terra adora e che ne sente l’amore. E di questo abbiamo bisogno in questa primavera del 2022.
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