La voce si leva solitaria nel cuore della notte. Arriva dai padiglioni di fronte ai miei. Distinta nonostante i doppi vetri ed il confort di una clinica romana. È il lamento ritmico e angosciante di un malato che, mi diranno gli infermieri, giunge dalla sezione lungo degenti.
Sono ricoverato da alcuni giorni per uno di quegli interventi ormai inevitabili alle soglie degli… anta: un’operazione chirurgica che, per quanto di routine possa essere, è sempre un “turning point” nella vita. Costringe a riscrivere l’agenda delle priorità, porta a stendere elenchi di cose fatte o ancora da fare, a chiedersi dove uno poggia le proprie speranze.
Sino a qualche ora fa, prima di entrare nell’accettazione della struttura, ero padrone dei miei gesti e delle mie parole: potevo decidere dove andare e cosa fare. Dopo sole dodici ore dall’ingresso sono sdraiato a pancia in su in un letto d’ospedale: flebo attaccate ed infermieri che ogni tre ore cambiano le sacche del lavaggio. Di fronte a me una tv accesa. E viene subito da innervosirmi.
Penso ai reparti di rianimazione dove i pazienti colpiti dal covid sono rimasti intubati per giorni e giorni, attaccati a macchine che consentivano loro di respirare. Mi domando dove abbiano trovato l’energia per accettare quella situazione. Oppure al collega malato di Sla che da due anni giace immobile su di un letto (di cui ho parlato anche in questa rubrica) e che comunica con i familiari solo grazie ad un computer collegato ad un puntatore ottico. «Il mio orizzonte – scrive – è la parete della stanza: giorno e notte per ventiquattro ore».
Il lamento ossessivo e disperato prosegue. Chissà perché mi fa pensare alle sirene antiaeree delle città ucraine che allertano dell’arrivo di bomba o missili russi.
Da alcuni mesi don Eugenio, sacerdote bergamasco che vive a Roma, organizza una Messa quotidiana dedicata a malati gravi, immobilizzati nei loro letti in ospedale o a casa. Ci si collega via zoom da tutta Italia e l’unica volta che mi è capitato di partecipare a quella cerimonia “sui generis”, ho visto sfilare sullo schermo del computer volti di donne e uomini lieti nonostante le devastanti prove che stanno affrontando.
Una di loro diceva: «Quando stavo bene mi lamentavo sempre di tutto. Ora che sono malata sto facendo l’esperienza della gratitudine». Ed un’altra a cui è stato diagnosticato un aggravamento del tumore contro cui lotta da anni aggiungeva: «Noi pensiamo che la pace nella vita nasca dall’assenza di problemi. Invece e è la coscienza di una appartenenza che fa la differenza. Io so che Cristo è con me e questo e per me fonte di pace».
Mi ricordo, quando frequentai il corso diocesano romano per portare la comunione ai malati, di un vescovo intelligente che ci raccomandava davanti al dolore soprattutto il silenzio: «Nel perimetro del dramma altrui – diceva – si entra in punta di piedi: evitate – aggiungeva – quelle frasi fatte del tipo: Dio permette la prova ma dà anche la forza per sopportarla…».
Mi colpisce infatti come per alcuni malati l’arrivo dell’eucarestia sia atteso con la stessa impazienza con cui si aspetta un amico. Una anziana parrocchiana in particolare apparecchia letteralmente la tavola di casa con un centrino, una candela accesa, fiori freschi, la statua della Madonna ed il bambinello del Presepe. Parla poco ma i suoi occhi brillano. Ogni volta che termina il breve rito, sussurra con un filo di voce: «Grazie Gesù che sei arrivato».
Si capisce che per lei non è una consolazione a buon mercato, una mano di colore per nascondere le macchie scure del dolore. È una Presenza con cui sedersi a tavola. Un compagno di viaggio che è venuto accanto a te per aiutare a sopportare l’ingiustizia (perché la malattia è ultimamente un’ingiustizia: siamo fatti per la felicità).
Anche quel grido di dolore nella notte che si leva dalla clinica romana ha diritto a una risposta.
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