Mario Zagari era nato a Milano nel 1913. Come tanti della sua generazione, aveva dovuto attraversare due guerre mondiali ed il fascismo. Anzi, alla guerra (la seconda), aveva preso parte come ufficiale degli Alpini, inquadrato nella Divisione «Julia», tornandosene a casa con una decorazione al valor militare.
Negli ultimi anni di guerra, aveva preso parte alla Resistenza. Socialista, era entrato in contatto con Eugenio Colorni, che, con Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, aveva partecipato alla stesura del Manifesto di Ventotene. Eugenio Colorni fu poi assassinato dai fascisti a Roma il 28 maggio del 1944.
Nel 1946, Zagari fu eletto all’Assemblea costituente nelle file del Partito socialista. Il 24 marzo dell’anno successivo, la seduta pomeridiana dell’Assemblea fu dedicata all’esame degli emendamenti agli articoli delle cosiddette Disposizioni generali. Il Presidente, Umberto Terracini, aprì la discussione in merito all’articolo, il cui testo era originariamente così formulato:
«L’Italia rinunzia alla guerra come strumento di conquista e di offesa alla libertà degli altri popoli e consente, a condizione di reciprocità e di eguaglianza, le limitazioni di sovranità necessarie ad una organizzazione internazionale che assicuri la pace e la giustizia tra i popoli».
Prese la parola l’onorevole Mario Zagari, il quale esordì spiegando che il testo in discussione non era soddisfacente. Si espresse proprio in questo modo: «Il testo proposto dal Presidente della Commissione non è soddisfacente».
Zagari sostenne che si dovesse introdurre l’espressione «l’Italia ripudia la guerra», per sottolineare un rifiuto della guerra sul piano morale (e non solo ideologico o politico) e per affermare la vocazione pacifica della nuova Italia
Meuccio Ruini, del gruppo misto, Presidente della Commissione per la Costituzione, intese spiegare, in quella stessa seduta, le ragioni che avevano spinto i primi redattori a voler rimarcare il rifiuto della guerra. Si era voluto, disse, far risuonare «come un grido di rivolta e di condanna del modo in cui era intesa la guerra nel fosco periodo dal quale siamo usciti: come guerra sciagurata di conquista e di offesa alla libertà degli altri popoli».
Anche in questa occasione, l’intento dei nostri Costituenti era quello di redigere un testo che testimoniasse una forte e radicale discontinuità con le esperienze precedenti. Perché la Costituzione, come scrisse Giuseppe Dossetti nel 1995, «è nata ed è stata ispirata da un grande fatto globale, cioè i sei anni della seconda guerra mondiale». Una guerra, aggiungeremo noi, distruttiva e totale, come lo saranno tutte le guerre novecentesche: guerre in cui scompare la linea di demarcazione tra società armata e società disarmata; guerre in cui sono sempre i civili a dover pagare il tributo maggiore in termini di vite umane.
Oggi, a distanza di quasi ottant’anni dalla fine di quella esperienza, l’Europa si ritrova nuovamente a dover fare i conti con la possibilità che una guerra (combattuta direttamente o alimentata a distanza) possa essere il migliore strumento per la risoluzione di questioni politiche. Ed è sempre più difficile parlare di alternative al più sbrigativo strumento delle armi. Perché la guerra condiziona ogni discorso, radicalizza ogni posizione, rende impossibile l’esercizio pacato della ragione. Perché, in fin dei conti, la guerra si impone quando la ragione umana è già stata messa a tacere.
Il 25 aprile di quest’anno, prima ancora di essere celebrato è già condizionato dall’eco della guerra scatenata dalla Russia. I rituali discorsi, le manifestazioni, i canti, non potranno esimersi dal fare i conti con quanto sta succedendo non molto lontano da noi. Dalla constatazione che la violenza della storia, di quella storia da cui i nostri Costituenti volevano prendere definitivamente le distanze, si ripropone in tutta la sua brutalità. E di fronte al clamore delle armi come di fronte alle posizioni radicali sbandierate e urlate, la voce flebile della ragione come il ritmo lento del pensiero non trovano spazio.
Questo, non sarà un buon 25 aprile.
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