In questi giorni d’incredibile follia omicida è uscito un monitoraggio (Ipsos) che valuta il giudizio degli Italiani sulla guerra in corso. Uno studio molto documentato, realizzato allo scopo di comprendere quale sia il nostro atteggiamento nei confronti di quel che sta succedendo in Ucraina. In definitiva, per sapere chi si colloca a difesa dell’aggredito (Ucraina) e quanti invece parteggino per l’aggressore (Russia). Potrebbe apparire una domanda oziosa, quantomeno sul piano della logica, perché parrebbe ovvio dire che il mondo occidentale è completamente schierato dalla parte di chi sta subendo un torto gravissimo ed è costretto a lamentare morti, feriti e sofferenze, quasi senza precedenti, se non con quel che è successo durante la seconda guerra mondiale col nazi-fascismo.
E invece non è proprio così. Da quelle interviste emerge che solo il 57% degli Italiani sta dalla parte degli aggrediti. Mentre ci sarebbe un 5% che parteggia apertamente per la Russia e, addirittura, un 38% di intervistati che non prende posizione, né per l’uno né per l’altro. Dal che discende che metà degli Italiani non considera opportuno che vengano mantenute né le sanzioni nei confronti della Russia né, tantomeno, considera ragionevole l’impegno d’inviare armi agli aggrediti. Quasi la metà dei nostri connazionali vorrebbe che restassimo fuori dalla guerra in qualsiasi caso. Vorrebbe che assumessimo una posizione neutrale (agnostica, viene da dire), nell’attesa che qualcun altro (Unione Europea, Vaticano, Israele) faccia da paciere tra i litiganti, ma avendo cura di evitare qualsiasi nostro coinvolgimento diretto. Dunque, da quelle interviste emerge un quadro che, indubbiamente, lascia spiazzati (credo).
Tuttavia, come per qualsiasi altro dato, anche in questo caso bisogna prendere atto che questo è il quadro che la realtà ci propone e non c’è altro da fare che interrogarsi sul perché di queste profonde divaricazioni. Non c’è ragione né di lamentarsi né di gioire. Chi di dovere studierà con cura la questione, per provare a capire se tutto questo non sia altro che l’espressione di un disagio profondo (più che una valutazione meditata) o, piuttosto, qualcosa d’altro ancora. Bisognerà fare in modo di comprenderlo non per un mero calcolo politico, per girare la barra nella direzione più favorevole, ma per capire le ragioni profonde che governano la nostra collettività, con le quali, nel bene e nel male, bisogna fare i conti. Dunque, è un approfondimento da specialisti.
Ma fin da adesso, però, bisognerà mettere in conto che tutto questo ha molto a che fare con l’informazione, con i suoi riti e le sue manchevolezze e che queste manchevolezze e questi riti sono il frutto, anche, di certe nostre scelte personali. Non dipende soltanto da una delle parti in gioco se le cose non funzionano. Dipende anche dalla maniera sbrigativa con cui cerchiamo di osservare la realtà, dal modo d’informarsi, dall’indulgenza divertita con cui guardiamo certe trasmissioni televisive, dove piace lo scontro tra personalità (presunte), come se fossimo in un’arena. Senza contare che in quei confronti prende forma gran parte della nostra consapevolezza sugli avvenimenti. In quelle disfide si formano le “verità” sulle vicende che ci colpiscono di più. In quelle tenzoni si consuma la disponibilità di tempo che concediamo all’informazione e si esaurisce la credibilità dei duellanti, perché «ogniqualvolta l’uomo di scienza esprime il suo proprio giudizio di valore, cessa la piena comprensione dei fatti» (Max Weber).
In questi giorni la Rai ha deciso di cambiare strada sui talk show, “D’ora in avanti dovranno attenersi ad un preciso regolamento: invitare persone competenti e autorevoli, possibilmente non pagarle, alternare gli ospiti in modo da scoraggiare un parterre in cui ognuno gioca la sua parte, esaltando contraddittori che ci si immagina funzionali agli ascolti. E solo alla fine garantire la veridicità dell’informazione” (Sorrentino, 2022).
Non è mai troppo tardi (Corso di istruzione popolare per il recupero dell’adulto analfabeta, 1960)
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