«Posso chiederle il suo nome?», ci prova dopo un po’ il giornalista, abituato dai maestri professionali e fin dalla gavetta a cercare sempre di conquistare tutti i dati di una storia. «Assolutamente no, non voglio apparire. Non ha importanza».
«Vispo Ottantenne» mi suggerisce allora il piano b chi mi ha procurato il contatto e lo conosce. E così sia.
Vispo Ottantenne abita in un paesone dell’ovest Varesotto, adagiato sul lago. La quota ottanta, per la verità, l’ha passata da un pezzo. È vedovo, non ha figli, dimora da solo in una casa che per anni è risultata sproporzionata al suo stato di famiglia. Troppo grande, ma con la porta rimasta aperta.
Quando Vispo Ottantenne ha saputo che dall’Ucraina stava arrivando un pullman “varesino” con a bordo venti persone, tra donne e bambini, taluni con qualcuno ad aspettarli, altri no, non ci ha pensato due volte: la porta di cui sopra l’ha proprio spalancata, prendendosi carico di una mamma con due figli quando ancora non erano arrivati a destinazione.
Una meta peraltro agognata, sudata. Quel pullman, “targato” Autolinee Varesine, proprio nelle ore in cui Vispo Ottantenne si donava al bisogno altrui, era bloccato alla frontiera tra Romania e Ungheria, di ritorno dalla Bessarabia dove aveva compiuto la propria opera di salvezza. Ineffabili i doganieri ungheresi: 50 minuti per controllare ogni macchina in arrivo dal dramma della guerra, tre volte tanto per un pullman. Risultato? Ventuno ore di coda. Senza generi di conforto, né bagni da utilizzare, al freddo.
Vengo a conoscenza della storia. Me la racconta al telefono la signora Daniela, che ha organizzato il tutto. «Daniela come?» chiedo a un certo punto. «No no, non metta il cognome. Non voglio apparire, non ha importanza».
Daniela conosce Valentina, giovane che il biondo e il blu della bandiera ucraina li porta addosso, a colorare i capelli e gli occhi. Scoppia il conflitto e l’amicizia mantenuta a distanza vale prima un tuffo al cuore di preoccupazione, poi la risoluzione di un viaggio: «La voglio portare qui». Insieme a Valentina, però, ci sono tante altre anime dello stesso suo paese che vorrebbero scappare… Una macchina non basta: servirebbe un pullman.
La varesina chiede aiuto al suo datore di lavoro, che non ci pensa su due volte: mette a disposizione il proprio mezzo e paga sei dei suoi autisti perché lo portino a destinazione, a Siret, 2000 chilometri solo andata da qui. Le generalità dell’imprenditore vengono fuori, quasi inevitabilmente, e finiscono nell’articolo. Due giorni dopo incontro suo fratello a una partita di pallacanestro, mi saluta, ci conosciamo da tempo: «Bello il pezzo, complimenti. Ma Fabrizio non avrebbe voluto apparire… Non aveva importanza».
Confesso: il nome dei sei autisti non ho nemmeno provato a chiederlo.
Sfoglio, con il dito sul cellulare, altre storie di solidarietà varesina raccontate da colleghi. Mi colpisce quella di Roman: 23 anni fa aveva iniziato a venire in Italia, poco più che bambino: per lui, figlio di Chernobyl, la nostra terra era diventata un rifugio d’estate, lo ritemprava dall’aria radioattiva e malsana che aveva impregnato la sua esistenza dopo la catastrofe nucleare. A ospitarlo una famiglia di Gallarate, prima un anno, poi due, poi tre.
Vent’anni più tardi il telefono di quella famiglia, diventato tramite per gli auguri durante le feste e per rinfocolare, di tanto in tanto, ricordi preziosi, suona all’improvviso: «Sono Roman. Mia figlia e mia moglie stanno scappando in Italia, io sono costretto a rimanere qui. Vi prego, prendetevi cura di loro».
Un altro lungo viaggio – prima a piedi, scappando, con la vita racchiusa in una valigia, poi su ruote – giunge a destinazione. Ad aprire le braccia, leggo, sono Alberto e Augusta.
“Nessun cognome - scrive la brava narratrice – Alberto e Augusta ci tengono alla loro riservatezza».
Mentre sto per chiudere il bollettino, scorgo un altro articolo, anzi un’altra foto. Ritrae uomini e donne dai tratti somatici evidentemente diversi, ma tutti abbracciati e sorridenti dietro a una bandiera ucraina. Guardo il titolo: “Arrivata a Luvinate la prima famiglia di profughi”. Riguardo la foto: non ha una didascalia.
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