Invasione russa in Ucraina. Durante la prima settimana prevale la ricerca ansiogena di informazioni, la radio è sempre sintonizzata sui notiziari, le serate trascorrono davanti agli speciali TV, i giorni si snodano tra i sentimenti altalenanti del timore e della speranza.
Al contrario di me alcuni amici si sono imposti un temporaneo black out dei media: tutto spento, di tanto in tanto una fugace occhiata allo smartphone mentre si prova ad occuparsi d’altro per scacciare la sensazione di essere affacciati sull’orlo di un baratro.
Appartenendo alla categoria di coloro che seguono lo sviluppo degli avvenimenti ora per ora, accetto di pagare il prezzo di un’ansia crescente che mi costringe ad alternare momenti di rifiuto delle notizie ad altri in cui prevale il bisogno di sapere. Una decisione controcorrente però l’ho presa. In questo tempo non farò circolare via WhatsApp nessuno dei post che ricevo dai miei contatti: quasi mai le fonti sono verificabili.
Scelgo di non rispondere neppure, come invece vorrebbe la netiquette. Mi comporto come se non li avessi ricevuti, e questo anche quando potrei concordare con il loro contenuto. Se rileggo i messaggi con maggiore attenzione, in filigrana colgo l’insidia nascosta: sono costruiti apposta per provocare reazioni istintive. Sono fatti per indurre a risposte lampo.
Era prevedibile che su un tema così forte il web si sarebbe scatenato e che social si sarebbero riempiti di fake news. Ho pochi dubbi sull’effetto moltiplicativo dei post: attivando una circolazione incontrollabile di notizie producono disinformazione. Altre riflessioni arrivano con un esame più approfondito: tra le notifiche pervenute tante portano l’indicazione che sono state “inoltrato molte volte”.
Chi sarà l’autore del post? E chi saranno quelli che ne hanno facilitato i passaggi Persone sicure della veridicità di ciò che inoltrano senza effettuare alcun controllo? L’autore o gli autori hanno cominciato nei mesi duri della pandemia a inventare di tutto: purtroppo temo che oggi, in pieno conflitto, gli effetti delle fake news possano essere ancora più pericolosi. Come nel caso che segue.
Una certa K. F., che si qualifica come scrittrice russa del Donbass, pubblica una lunga dichiarazione che, iniziata con un tono accorato, si fa via via pressante. K.F. afferma di essere stata indotta a esprimersi pubblicamente perché sollecitata da amici e conoscenti. Quando gli ucraini causarono terribili massacri al proprio popolo, le loro donne, le stesse che oggi si trovano nel pieno della tempesta, allora assistettero a quegli eventi con distacco e disprezzo. Ora, dimentiche dell’orrore imposto a suo tempo al Donbass, rivendicano protezione internazionale e chiedono pietà per la propria gente.
Una breve ricerca in rete mi ha fornito qualche notizia su K.F. Da molti anni vive in una nazione lontana dall’Ucraina, in Occidente. Difficile pertanto che sia stata testimone diretta di ciò che racconta. Nelle poche righe che la rete ci offre su di lei, viene segnalata l’esistenza di un unico romanzo scritto nella lingua del paese che la ospita dal 1991.
Se provo a rileggere con occhi ancora più critici in quel post individuo la volontà di trasmettere rancore e suscitare rabbia. È come se, tra le righe, venisse evocato il detto popolare “Oggi a me, domani a te”. Percepisco che, quand’anche fosse veritiero il racconto dei massacri fatto da K.F., il sentimento che si vuole suscitare per il dramma odierno non sarebbe la pietà bensì la vendetta.
Sorge il sospetto che la veste di scrittrice le sia stata applicata per dare più peso e valore alle sue posizioni anti ucraine: perché una scrittrice è un’intellettuale e pertanto ha titolo per formulare qualunque giudizio. Ecco perché ho deciso di dissociarmi dai social in tempo di guerra: meglio tacere che partecipare a indubbie operazioni sui social. Un responsabile silenzio sembrerebbe necessario.
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