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Società

INNOCENTE E SENZA DIFESA

LUISA NEGRI - 11/03/2022

lastoriaFesta della donna, 8 marzo.

Mi arrivano dalle amiche gli auguri accompagnati da bouquet virtuali di Mimose.

Le amiche, certo, compagne preziose, da sempre o da tempo, di fondamentali tratti di vita. Più d’una se n’è andata, e ogni loro ricordo, biglietto o piccolo dono lo conservo come un talismano.

Ma altre sono con me. E tutte mi sono care, nella varietà dei loro volti e sorrisi buoni, delle loro chiacchiere, delle loro parole comprensive delle mie assenze.

Ma dobbiamo crederci? Possiamo crederci ancora, ci siamo dette molte volte, quando ci lasciano intendere per un giorno che siamo esseri speciali? Forse no.

A giudicare da quanto succede ogni giorno anche in famiglie ‘normali’. Un rosario di drammi consumati sulla pelle delle donne, dai compagni o mariti, in realtà insospettabili a volte, o in situazioni dove la tragedia era realtà annunciata. Eppure nessuno di chi avrebbe dovuto capire e provvedere ha alzato un dito, ha preso la giusta decisione per evitare l’irreparabile.

E adesso la guerra. Questa fetida compagna di strada ha riportato indietro le lancette del nostro tempo. Sovrasta e impaurisce anche noi che pure siamo, per ora, lontani dal cuore dello scontro.

E l’accanimento contro le donne si è tradotto in pura barbarie. Uccise mamme coi bambini per mano, violentate dagli invasori spesso ubriachi, ragazze che chiedono solo la loro libertà. Come nei secoli bui la guerra fa della donna, così come dei bambini, la vittima più innocente e indifesa.

Mi vengono alla mente due romanzi, rispettivamente di Alberto Moravia e Elsa Morante, compagni di vita e di lavoro. La Ciociara, dove si racconta il doppio stupro di una madre e della sua giovanissima figlia, alla fine della seconda guerra mondiale, opera del primo. E La Storia, romanzo in cui il protagonista, il piccolo Useppe, è a sua volta figlio di una violenza di guerra. Moravia e la moglie vissero insieme da sfollati nella campagna romana, per diverso tempo. La maestra, Ida Ramundo vedova Mancuso, donna solitaria e timida, viene avvicinata e stuprata in casa sua da un soldato tedesco, Gunther. Si accorge ben presto che le cresce in grembo il frutto di quella violenza. Ma lei lo mette al mondo, lo accudisce e lo adora come fosse un figlio dell’amore. Sarà la malattia a strapparglielo.

Romanzo bellissimo del 1974, una testimonianza necessaria per l’autrice, un inesauribile fiume di parole, intenso, per me. E tra i libri prediletti. Me l’ero ‘bevuto’ in pochi giorni. La figuretta mite ed eroica della maestrina mi accompagna ancora.

Ma quante sono state e ancora saranno provate dalla vita come lei?

Un’anziana amica, che la seconda guerra l’ha vissuta da bambina, mi ha raccontato un episodio in cui protagonista e vittima fu sua madre. Nella villa di campagna in Romagna, vicino alla linea gotica, in un pomeriggio estivo arrivano macchine e moto tedesche. Mamma e figlia, con l’anziano nonno, sono sorpresi dall’improvvisa incursione. I soldati sequestrano la loro abitazione per restarci. Mettono persino un cartello alla porta. E raccomandano ai proprietari di esserci quando loro torneranno la sera. La famigliola vorrebbe partire prima. Ma non c’è tempo. I soldati rientrano ben presto, prima di sera. Un ufficiale privo di un braccio si avvicina alla madre e le chiede di seguirlo al fondo del giardino. La bambina vedrà ricomparire la madre dopo una lunga attesa, in silenzio. I capelli sciolti, un po’ scompigliati.

Anni dopo la bambina ormai adulta troverà in un giornale la foto di quel noto ufficiale. Lo riconosce, ritaglia e conserva la foto. Quella che mi mostra.

Non l’hai odiato?

No, io non odio. Sono serena.

Hai perdonato?

Non spetta a noi concedere il perdono. Sarebbe forse una presunzione troppo grande.

Ma io credo. E leggo la Bibbia e porto testimonianza della mia fede ai Fratelli.

Ho la pace in me.

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